Skip to main content

17

l’eredità del vento

Diario di Viaggio

Kasserine
e Kairouan

Una notte di henné e racconti. Un pezzo da recuperare tra velivoli abbandonati. E una città sacra, attraversata senza sapere chi, nell’ombra, osserva.

Punti di interesse VISITATI

Arte del Contrattare

La danza invisibile del mercato

Contrattare non è solo abbassare un prezzo: è un rituale sociale che coinvolge sguardi, battute, silenzi e gesti. Nei mercati arabi, saper contrattare significa conoscere le regole non scritte del rispetto, della teatralità e del tempo. È un modo per costruire fiducia, testare caratteri e fare del commercio un atto di relazione.

Sefseri

Eleganza tunisina tra riservatezza e bellezza

Il sefseri è un grande velo bianco o colorato che le donne tunisine indossano avvolgendolo intorno al corpo. Simbolo di pudore, eleganza e identità, permette libertà di movimento e protezione dagli sguardi. In alcune città è ancora usato durante cerimonie o festività, come segno di continuità tra generazioni.

Sefseri (foto Dall-E)

    Kasserine e Kairouan
    SOTTO-MENU PARAGRAFI

    Kasserine e Kairouan

    A casa di Ali

    Il rombo del motore dell’XCub è appena svanito nel buio quando, puntuale come fosse attesa da giorni, alla porta bussa Leila, un’amica di Meriem. Entra, con il passo sicuro di chi sa di non dover chiedere permesso, avvolta in un lungo foulard color sabbia e con un piccolo sacchetto ricamato tra le mani.

    Inizia così una serata tutta al femminile. Il tappeto sul quale siamo sedute è ruvido sotto i polpastrelli ma l’ambiente intorno è morbido, intimo, quasi protetto. Cuscini bassi ricamati, posati in cerchio attorno a un grande vassoio in rame, ci accolgono con la stessa naturalezza di una madre che riabbraccia le figlie. La stanza profuma di gelsomino e spezie.

    Meriem, vedendo il mio sguardo perplesso, mi anticipa con un sorriso: «Ti sembra strano, vero, stare sedute a terra? Ma è da qui che nasce l’armonia. Siamo tutte alla stessa altezza. È così che si ascolta meglio. Si mangia meglio. E si raccontano storie più vere.» Poi aggiunge, con un tocco ironico: «Le sedie separano. I cuscini uniscono.»

    Leila si è già tolta il velo, liberando i capelli scuri raccolti in una treccia semplice. Ha iniziato a preparare l’henné mentre Meriem versa l’acqua di rose in una piccola ciotola di ceramica. Mi spiegano che la pasta viene mescolata con limone e zucchero per fissare meglio il colore e poi lasciata riposare al centro della stanza, sotto una candela accesa. «Serve calore per attivare la magia» dice Leila, seria ma con un lampo di divertimento negli occhi.

    «Lo facevamo da bambine, per gioco, e poi da adolescenti per sentirci grandi. Ma l’henné, qui, è sempre stato una cosa seria» continua, mentre impugna un piccolo cono di carta e inizia a disegnare sulla mia mano. «È un rito che accompagna ogni fase della vita: nascita, matrimonio, lutto, guarigione. Ogni segno ha un significato. Ogni donna ne porta uno diverso.»

    Il disegno prende forma lentamente, un intreccio di rami, stelle e fiori stilizzati. Intanto Meriem racconta di come ancora oggi, in alcune regioni dell’interno, l’henné venga usato per proteggere le donne dal malocchio o per favorire la fertilità. «Si dice che più il colore è scuro, più porterà fortuna. Ma deve durare: almeno sette giorni, come una promessa che resiste al tempo.»

    Leila, con lo sguardo allegro e diretto, aggiunge: «E più è elaborato più è segno di rispetto per chi lo riceve. È come dire: tu meriti bellezza e tempo.»

    Le parole si fanno lente. Parliamo del significato dei gesti, del corpo che, per molte, è ancora qualcosa da custodire, giustificare o nascondere. E di quanta forza serva, ogni giorno, per affermarsi in un mondo dove libertà e giudizio spesso camminano a braccetto.

    A un certo punto Meriem si sfila il velo con un gesto tranquillo, quasi danzato. Lo ripiega con cura e lo posa accanto a sé. Mi guarda negli occhi e sorride. «Vedi, per noi il velo è come una porta. Lo si apre o lo si chiude in base a chi abbiamo davanti. Non è solo religione, è intimità. È dire: ora posso essere me stessa, senza filtri.»

    La frase mi rimane addosso. È così semplice. E così potente.

    In disparte ma sempre partecipe, Skippy segue ogni movimento con i gomiti sulle ginocchia e il mento tra le mani. Quando Leila si accorge che non ha perso nemmeno un passaggio, si avvicina ridendo: «Peccato non poterle fare un tatuaggio anche a lei…»

    Meriem la osserva un attimo, poi prende un pennellino sottile e traccia una piccola spirale sul dorso della sua zampetta. «È un portafortuna berbero» dice, mentre Skippy la guarda seria, poi alza le sopracciglia e sorride con tutto il viso, come se le avesse appena conferito una medaglia.

    Si torna a chiacchierare. Si parla di figli, di sogni, di ricette di famiglia, come la mloukhia che richiede ore e ore di cottura o la brik che va fritta in silenzio per non farla rompere. Si ride, con quella complicità che solo le donne sanno costruire, scavando nei ritagli di tempo strappati al dovere.

    L’henné si asciuga piano, la pelle inizia a tirare lievemente, come se i disegni volessero rimanere incisi. Fuori la notte si è fatta più dolce e l’aria porta l’odore del pane che lievita.

    E in quell’angolo di mondo, per una sera, non stiamo semplicemente decorando le mani. Stiamo ricordando a noi stesse chi siamo, chi siamo state e chi potremmo ancora diventare.
    Ognuna con le proprie cicatrici, i propri desideri, le proprie battaglie. Ma tutte, per una sera, libere di essere solo donne anche se di culture, luoghi e religioni differenti.

    “Ci sono serate in cui la bellezza si disegna sulla pelle, ma resta nell’anima.”

    Hennè preparato sul tappeto di Meriem (foto Dall-E)

    A Kasserine

    La luce del tramonto si è appena spenta tra le montagne quando raggiungiamo la tenda che ci era stata indicata. L’ingresso è semplice, tenuto su da pali di legno e teloni rinforzati dal vento e dalla sabbia ma dentro tutto parla di una vita spesa qui.

    Ali entra per primo. Io mi fermo sulla soglia ma bastano pochi secondi perché le voci si alzino e i sorrisi esplodano. L’uomo all’interno si gira, lascia cadere una cartellina piena di fogli e spalanca le braccia. Ali gli si butta incontro come si farebbe con un fratello dopo troppo tempo. Si stringono a lungo e, in quella stretta, c’è tutto: riconoscenza, storie condivise, fatica, orgoglio.

    «Eccolo il nostro pilota delle dune!» esclama l’uomo, con un accento che tradisce origini francesi. Ha occhi azzurri e un viso segnato dal sole, la pelle bruciata come carta antica. «Pensavo ti fossi sistemato da qualche parte a fumarti il tempo.»

    Ali ride. «In effetti il piano era questo. Ma poi…» si gira verso di me «…poi arrivano gli amici nei guai. E come faccio a dire di no?»

    Mi sento di troppo. Vorrei tagliare corto e chiedere subito del pezzo per il Cessna. Ma Ali, che mi legge come un libro aperto, mi blocca con uno sguardo facendomi capire che ogni cosa ha il suo tempo.

    «Direi di bere qualcosa insieme, parlare un po’ e organizzarci per domani. Così risolviamo il problema al mio nuovo amico Camillo» dice con tono allegro.

    Il “grande capo”, che scopro chiamarsi Étienne ed essere di Lione, annuisce convinto. «Siete capitati bene… stasera è serata barbecue! Hamburger per tutti… ovviamente, solito pollo speziato per te, Ali.»

    Ridiamo e in un attimo ci ritroviamo fuori, attorno a un fuoco improvvisato dentro un vecchio bidone. C’è un americano che cucina sulla griglia con l’aria di chi ha fatto il soldato e ora vuole solo sentire il profumo del legno che arde. Una ragazza marocchina serve bicchieri di tè alla menta con gesti eleganti. Un canadese e un senegalese discutono di calcio e vaccini. Intorno, sparsi, una decina di volti da ogni parte del mondo: stanchi, segnati… ma vivi.

    «Una volta a settimana facciamo così» mi racconta Étienne, seduto accanto a me con un panino ancora incartato in mano. «Un piatto diverso, ognuno ci mette qualcosa del suo paese. Ci fa ricordare che siamo esseri umani, non solo operatori, meccanici o medici.»

    Ali sembra rinato. Sembra sentirsi a casa. Scambia battute in francese con una volontaria congolese e ride come un ragazzino mentre addenta il suo hamburger.

    «Ali ha fatto parte di questa squadra per anni» aggiunge Étienne, come se leggesse i miei pensieri. «Tunisia, Libia, Mali, Mauritania… Quando nessuno voleva volare, lui volava. Quando c’era da portare qualcuno fuori da zone difficili, lui c’era. Mai una parola in più. Mai una richiesta. Solo presenza.»

    Mi volto verso Ali che mi sorride come se niente fosse. Ma ora capisco perché qui, anche senza divisa, cammina come se portasse addosso un simbolo. E capisco anche perché Étienne non gli ha chiesto spiegazioni: ha solo detto “bentornato”.

    La notte scende veloce e il cielo si accende di stelle che sembrano voler restare a guardare. Qualcuno tira fuori una chitarra e parte una canzone che tutti sembrano riconoscere.

    Nel calore della brace e delle storie, la questione del pezzo per il Cessna passa in secondo piano. Perché qui, prima di riparare qualcosa, si costruiscono legami.

    Domani si troverà una soluzione. Stasera, invece, si costruisce fiducia. Una cosa alla volta. E forse è proprio questo, alla fine, il segreto che tiene in piedi un luogo come questo.

    “I legami veri non hanno bisogno di molte parole. Bastano mani che lavorano e fuochi che scaldano.”

    Attorno al fuoco (foto Dall-E)

    Colazione tra donne

    Un profumo dolce e speziato mi accarezza il viso prima ancora che apra gli occhi. Non saprei dire se sia miele, arancia o cannella… ma è qualcosa che sa di buono. Di casa.

    Quando mi affaccio in cucina, Meriem e Leila sono già in piedi, avvolte in tuniche chiare, i capelli sciolti e il viso ancora segnato dal sonno. Meriem sorride senza dire niente, come fanno le donne che sanno sempre dove si trovano, anche prima del caffè.

    Sul tavolo basso, già apparecchiato con cura, c’è una colazione che sembra un piccolo banchetto: pane tabouna caldo, ancora fumante, fichi secchi e una crema scura e lucida che Meriem mi spiega essere bsissa, un impasto d’orzo, datteri e olio d’oliva che si mangia con le dita. Accanto, il classico tè alla menta, servito in bicchieri decorati, e un piccolo piatto di yo-yo, ciambelle fritte inzuppate di sciroppo d’arancia.

    Skippy arriva in punta di piedi, ancora un po’ stropicciata, ma appena vede il tavolo si illumina. Si siede accanto a me e comincia a osservare ogni cosa con aria da intenditrice. Fa un gesto verso i yo-yo e Meriem le porge un pezzo con il sorriso di chi ha già capito tutto.

    «Oggi voglio portarvi a Kairouan» dice Meriem, mentre ci versa il tè. «Voglio farvi vedere il mercato e poi alcuni posti speciali della città. Sono cresciuta lì e posso assicurarvi che ogni angolo ha qualcosa da raccontare.»

    Annuisco cercando di non perdere nemmeno una goccia di bsissa. «Mi piacerebbe molto. Davvero.»

    Skippy, che ha le guance ancora un po’ piene, alza il pollice in su con entusiasmo contagioso. Meriem ride e le carezza il capo. «Con lei sarà ancora più bello.»

    Leila, appena sente parlare di Kairouan, si siede e si unisce subito alla conversazione.

    «Vengo anch’io! Il mercato è meraviglioso il sabato mattina. E poi c’è un negozio che fa i baklawa più buoni della regione. Dobbiamo andarci per forza.»

    Beviamo lentamente, lasciando che il tempo si distenda insieme al profumo del tè.

    Fuori, la città si sta svegliando piano — e con lei, anche il nostro piccolo viaggio dentro un altro pezzo di Tunisia.

    “A volte l’avventura comincia con un sorso di tè e un sorriso condiviso.”

    tavolino della colazione di Meriem (foto Dall-E)

    Caffè a Kasserine

    Il telo della tenda si muove appena, spinto da un vento secco che sa di sabbia e silenzio. Apro gli occhi con fatica, ancora confuso, ma prima che riesca a orientarmi del tutto, Ali è già lì. In piedi, con una tazza tra le mani.

    «Caffè americano» dice porgendomela con quel tono gentile che ha sempre. È fumante. E nero come il cielo di stanotte.

    Lo guardo, con gli occhi ancora mezzi chiusi. È chiaro che è sveglio da un pezzo.

    «Che ore sono?»

    Ali dà un sorso alla sua tazza. «Ora di sistemare la questione del ricambio.»

    Lo dice con calma ma so che per lui è già tardi. Si muove veloce, efficiente, come se fosse tornato in servizio.

    «Ho trovato l’olandese» aggiunge. «Quello che ci ha indicato Carlo. Jonas Meijer. Ci aspetta in un vecchio hangar, laggiù, dove tengono i velivoli dismessi che cannibalizzano quando hanno bisogno di ricambi.»

    Mi alzo di scatto, infilo gli scarponi, e cinque minuti dopo siamo già in cammino.

    L’hangar è una struttura bassa, metallica, un po’ piegata dal tempo e dalla ruggine. Dall’esterno non dice nulla, se non una cosa: qui dentro è passato il deserto.

    Jonas ci aspetta sulla soglia. Alto, magrissimo, ha un viso scavato e mani enormi, nere di grasso. Non sorride. Fa solo un cenno ad Ali, poi si volta e si infila tra le carcasse degli aerei come se noi dovessimo seguirlo senza fiatare.

    Ali lo saluta con un tono rispettoso. «Lui è Jonas. Non parla molto. Ma ogni bullone che tocca, vola. Ha lavorato anche con Carlo per anni.»

    Lo capisco subito. Jonas si muove tra i velivoli dismessi come un archeologo tra le rovine. Tocca un’elica, alza un pannello, infila il braccio dentro un vano motore. A un certo punto si ferma davanti a un Cessna 172 coperto di polvere rossa.

    «Questo non vola più da tempo» dice, la voce bassa, quasi roca. «Problema strutturale all’ala durante una tempesta. Ma il motore… il motore è ancora sano.»

    Si inginocchia, apre un pannello laterale, tira fuori una torcia, poi un cacciavite. Si mette al lavoro senza aggiungere altro.

    «Il regolatore di pressione della pompa carburante» dico, quasi per conferma.

    Jonas annuisce. «È integro e tenuto bene. Basterà fino alla prossima manutenzione seria.»

    Lavoriamo in silenzio. Io tengo la torcia, Ali passa gli strumenti. Jonas smonta il pezzo con delicatezza, come se stesse staccando un organo ancora vivo. Poi lo pulisce con uno straccio imbevuto d’olio e lo osserva in controluce. Sembra soddisfatto.

    Intanto Ali parla. Parla con Jonas ma anche con me.

    «Quando eravamo più giovani, Carlo diceva che Jonas era la sua assicurazione sul destino. Se c’era lui, un volo difficile diventava solo un volo. E se qualcosa si rompeva, bastava aspettare che Jonas lo guardasse… e funzionava di nuovo.»

    Jonas non commenta. Ma l’ombra di un sorriso si accende sul suo volto per un istante, come se quelle parole gli avessero acceso un vecchio interruttore.

    Ali continua. Mi racconta della missione, della scelta di piantare la base proprio a Kasserine. «Questa base ha una posizione strategica: ci sono villaggi sparsi, famiglie isolate, qui in Tunisia ma anche oltre. Poco più a sud comincia il deserto e lì, ti sembrerà strano, vivono famiglie, bambini e anziani. Servono medici, vaccini, viveri. E ovviamente… serve volare. Jonas è con noi da sempre. Prima in Mauritania. Poi in Niger. Ora qui.»

    Il sole è già alto quando il pezzo, pulito e sistemato, finisce in uno scatolone. Jonas lo chiude, scrive qualcosa con un pennarello sbiadito e ce lo consegna. Ci dà qualche dritta, ci spiega bene a cosa fare attenzione… Ali gli dà una pacca sulla spalla senza dire nulla.

    Saremo in grado di installarlo e far funzionare tutto correttamente?

    “Nel volo come nella vita, ci vuole chi conosce i pezzi e chi ha il coraggio di rimetterli insieme.”

    Jonas Meijer (foto Dall-E)

    Il mercato di Kairouan

    L’aria profuma di spezie, stoffe e zucchero caramellato. Ogni passo nel mercato di Kairouan è un assalto ai sensi, un vortice di voci, mani che si muovono veloci, colori che cambiano a ogni angolo. Meriem cammina davanti a me, sicura, elegante, salutando a bassa voce alcuni venditori come se fosse una regina senza corona. Leila le sta accanto, più dinamica, pronta a fermarsi ogni volta che un tessuto le attira l’occhio.

    Skippy è rapita. Osserva tutto con gli occhi spalancati, sfiora oggetti, tessuti, piccoli amuleti di terracotta appesi a dei fili di ferro. Ogni tanto si volta verso di me con quell’espressione da “hai visto anche tu?”.

    Prima di arrivare qui, Meriem mi ha raccontato storie e dettagli su questa città. Mi ha parlato della Grande Moschea, del significato delle sue 414 colonne ognuna diversa, recuperata da siti romani, bizantini e punici: un mosaico di civiltà che reggono la fede, del pozzo sacro di Barouta, scavato secondo la leggenda dagli stessi uomini che costruirono il pozzo di Zem Zem alla Mecca e da cui ancora oggi si può bere. E poi dei mercanti che da secoli fanno tappa qui portando spezie, lana, gioielli e racconti.

    «Il mercato, per noi, è come una seconda casa» mi dice adesso, mentre sfioriamo una bancarella di datteri. «Non è solo comprare. È socializzare, ascoltare, farsi vedere. Le donne vengono anche solo per parlare, scambiare idee, ricevere notizie.»

    Leila si inserisce: «E per contrattare. La contrattazione è un’arte. È come una danza. E se non balli, paghi troppo.»

    Io cerco di tenere il passo. Sento addosso gli sguardi ma non in modo minaccioso. È solo curiosità. Sono straniera, si vede. Ma sono anche ospite. E questo, qui, conta ancora qualcosa.

    Sul tetto polveroso di una casa poco distante dal mercato, due uomini stanno in silenzio, nascosti alla vista. Uno tiene un binocolo militare tra le mani e scruta. L’altro gli sta accanto, immobile come un’ombra. Il primo, dopo qualche secondo, si irrigidisce.

    «Le vedo» dice, senza staccare l’occhio dalle lenti. «La donna. E… la volpe. Ma l’uomo non c’è.»

    Il compagno si sporge leggermente, prende il telefono dalla tasca e compone un numero. La linea scatta subito.

    «Manca l’uomo» dice. Silenzio. Poi ascolta. La voce dall’altro capo è decisa, controllata, senza esitazioni.

    Resta in ascolto qualche secondo poi chiude la chiamata senza dire altro.

    L’uomo al suo fianco abbassa il binocolo. «Allora?»

    Il compagno gli tocca la spalla. «Non possiamo agire. Deve esserci anche l’uomo. Continuiamo le ricerche. Lo troveremo.»

    «Prova questo» mi dice Meriem porgendomi un copricapo tradizionale, un sefseri leggero e finemente ricamato. Me lo adagia sulle spalle con delicatezza, poi sistema il bordo sopra la testa. «Così. Ora sembri una di noi. Avrai meno occhi addosso.»

    Mi guardo allo specchio appeso a un gancio traballante. Per un attimo mi vedo diversa ma non estranea. Mi vedo… dentro. Dentro questo mondo.

    Skippy osserva la scena con gli occhi che brillano. Leila le si avvicina e le porge un piccolo oggetto in ceramica smaltata, un ciondolo a forma di porta: “È la porta blu di Kairouan. Protegge chi viaggia.”

    Skippy lo prende con entrambe le mani, come fosse preziosissimo. E lo è, per lei.

    Riprendiamo a camminare tra i vicoli dove le voci si sovrappongono ai canti del muezzin e al rumore delle biciclette che sfrecciano tra la folla. Meriem e Leila continuano a raccontarci altre storie: di donne forti, di artigiani pazienti, di leggende che si tramandano solo a voce.

    Siamo ancora ignare del pericolo che ci ha sfiorato. Ma in questo momento, c’è solo luce. E parole. E vita che scorre tra le mani.

    “Ci sono viaggi che cambiano lo sguardo prima ancora di cambiare la rotta.”

    Mercato (foto Dall-E)

    Scambio di favori a Kasserine

    Il sole comincia ad abbassarsi quando torniamo alla tenda di Étienne per i saluti prima del ritorno. L’hangar alle nostre spalle è ormai lontano ma nella mente sento ancora il rumore del metallo, la voce roca di Jonas e l’odore dell’olio meccanico.

    Entriamo senza farci annunciare. Étienne è seduto dietro al suo tavolo, intento a scrivere su un logbook consunto. Quando alza lo sguardo e ci vede, il sorriso gli arriva prima degli occhi.

    «Allora? Il mio vecchio Cessna ha ancora qualcosa da dare?» chiede.

    «Più di quanto sperassimo» rispondo.

    Ali fa un passo avanti. Gli racconta tutto, di Carlo, del guasto, del nostro viaggio. Quando pronuncia il nome di Carlo, Étienne si ferma, appoggia la penna e si lascia andare indietro con un sospiro profondo.

    «Carlo…» ripete. «Un altro eroe silenzioso. Qui ne abbiamo visti tanti passare. Ma alcuni… restano. Anche quando non ci sono più.»

    Si alza, mi viene incontro e mi abbraccia forte, con quella stretta che ti fa capire tutto senza bisogno di parole.

    «Ogni amico di Carlo… e di Ali… è sempre il benvenuto, Camillo.»

    Poi si gira verso Ali. Il tono cambia leggermente, si fa più concreto. «E già che siete qui, Ali, c’è un favore che vorrei chiedervi.»

    Ali non esita nemmeno un secondo. «Dimmi.»

    Étienne gli lancia uno sguardo che dice “so che capirai”. Poi ci spiega: «C’è un campo umanitario vicino Thala, poco più a nord. Hanno urgente bisogno di alcuni medicinali. La jeep si è rotta ieri e non ci sono altri mezzi disponibili fino a dopodomani. Voi… potreste fare una deviazione?»

    Ali si volta verso di me. Mi basta un attimo per rispondere.

    «Ovvio che vi aiutiamo, se possiamo.»

    Étienne annuisce, poi prende una scatola sigillata da sotto il tavolo. «Sono farmaci base ma là fanno la differenza. C’è una pista di fortuna appena fuori dal villaggio, usata da noi e da alcuni agricoltori locali. Jonas vi darà le coordinate.»

    Fuori, il cielo ha cominciato a tingersi d’arancio. Le ombre si allungano tra le tende, i bidoni, le ali d’aereo abbandonate. Prepariamo il carico, chiudiamo tutto con cura, e poco dopo siamo di nuovo in pista.

    Il motore dell’XCub ronza come un animale fedele. Ali si sistema le cuffie e mi lancia un’occhiata.

    «Pronto?»

    «Prontissimo.»

    “Ci sono missioni che non si misurano in chilometri ma in umanità.”

    pronti ad un nuovo volo (foto Flight Simulator 2024)

    Riassunto

    Il viaggio si divide tra mondi che sembrano lontani ma respirano lo stesso vento. Veronika e Skippy trascorrono una serata intima e profonda con Meriem e Leila: henné, confidenze e piccoli gesti che raccontano un altro modo di essere donna. Al mattino, una colazione tunisina apre le porte a Kairouan, città antica e pulsante. Lì, tra tessuti e spezie, si muovono inconsapevoli di occhi che le seguono dall’alto, pronti ad agire.
    Intanto, a Kasserine, Camillo e Ali recuperano il pezzo mancante per l’aereo, guidati da Jonas, meccanico d’altri tempi. Il campo della missione umanitaria diventa il luogo dove passato e presente si stringono la mano. Prima di partire, una richiesta: portare medicinali a Thala. Il volo riprende, ma ora a bordo non ci sono solo pezzi meccanici, ci sono promesse da onorare.