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Autore: SkyWander

14 + Diario di Volo Oristano Cagliari

Canti e Balli

Sono circa le 17 quando entriamo nella zona dei voli privati dell’aeroporto di Oristano. Il giro in città è stato piacevole e sono contento di aver convinto Veronika a non puntare dritto su Cagliari. Seguiremo la costa sud-occidentale allungando un po’ il volo per sorvolare i tratti più selvaggi della Sardegna.

Mentre sistemo i controlli a bordo sento, dietro di me, un ritmo di battiti irregolari. Mi volto. Veronika sta canticchiando una canzone francese che non conosco, mentre Skippy cerca di tenere il tempo tamburellando con le zampette.

Poi, all’improvviso, Skippy si gira verso di me e comincia a ballare in equilibrio precario, con le braccia allargate come se fosse pronta a spiccare il volo.

«Dai Cami, cantala anche tu!» dice Veronika, voltandosi con un sorriso che non ammette repliche.

«Mmm… meglio di no» rispondo mentre continuo a concentrarmi sul tablet di bordo dove sto impostando il piano di volo.

Skippy si blocca, mi fissa, poi inclina la testa da un lato con espressione esasperata. E insieme, all’unisono, partono con un fragoroso: «Booooooh!»

Scoppio a ridere. L’intesa tra loro è tornata quella di sempre e io, anche stonato, mi sento di nuovo parte di un trio felice e festoso, in un viaggio attorno al mondo.

La leggerezza non è una distrazione ma il modo migliore per iniziare una nuova rotta.

in decollo da Oristano (foto flight simulator 2024)

Saluti dall’alto

Poco dopo il decollo sorvoliamo Cabras per un passaggio simbolico sopra il Museo dei Giganti. Non possiamo vederle ma Veronika alza la mano e sorride: «Ciao Gavina… e ciao anche a lei direttrice!»

Skippy fa un cenno con la zampa, poi torna a fissare il paesaggio dal finestrino, con le orecchie dritte e il muso appoggiato al vetro. Lì sotto la terra è piena di storie che solo pochi sanno leggere.

Veronika apre lo zaino e tira fuori la guida sulla Sardegna e la macchina fotografica. Il movimento è fluido, istintivo. In quel gesto c’è tutto quello che siamo: lei che legge e racconta, io che volo e ascolto, Skippy che osserva come se tutto fosse un gioco.

«Tharros era un’antica città fenicia, poi cartaginese e infine romana» inizia, senza bisogno che io le chieda nulla. «Fondata probabilmente nell’VIII secolo avanti Cristo, proprio dove il promontorio si allunga nel mare… guarda là!»

Indica con la mano sinistra mentre con la destra tiene aperta la guida. Dal finestrino si vedono i resti delle strade lastricate, le terme, qualche colonna sparsa. Il promontorio di Capo San Marco le protegge come un muro naturale che ha retto a tutto tranne che al tempo.

«E vedi quella laguna? O stagno… non lo so, sembra quasi un lago. Lì dietro, nascosto tra le colline, c’è il sito di Mont’e Prama. Le statue dei giganti, i frammenti, tutto è venuto fuori da lì. Anni fa. Sotto terra. Quasi per caso.»

Osservo l’area che mi ha indicato, poi osservo lei: «Ma lì non c’è nessun monte… sembra una pianura. Perché si chiama Mont’e Prama allora?»

Veronika sorride, sfoglia qualche pagina della guida e risponde:
«In effetti non è un monte. “Prama” pare venga da pramma, che in sardo antico significa “palude” o “zona bassa e fangosa”. E il “mont’e” sarebbe più un modo di dire che una vera elevazione. Insomma, più che Mont’e Prama dovrebbero chiamarlo Collinetta del Fango.»

Poi mi guarda con un’espressione teatrale: «Ma vuoi mettere che suona meglio così che i Giganti della Collinetta del Fango?!»

Scoppiamo a ridere.

A volte, dietro i nomi più solenni, si nascondono le verità più semplici.

Capo San Marco visto dal Cessna (foto flight simulator 2024)

Ricapitolando

Lasciamo alle spalle il promontorio di Tharros e ci spostiamo lungo la costa verso Capo Frasca, dall’altra parte del golfo di Oristano. Il mare è calmo, tagliato solo da qualche scia leggera che si dissolve in fretta. La costa si allunga in curve morbide, il sole che comincia a calare alla nostra destra tinge tutto con riflessi dorati e arancio.

Veronika sfoglia la guida un’ultima volta, poi la richiude e si gira verso di me con quell’espressione da “organizzatrice di pensieri seriale”.

«Oook, ricapitoliamo un po’ di cose, così da avere la mente più lucida quando parleremo con questo professore.»

Mi guarda sollevando un sopracciglio. Alzo la mano dalla cloche e faccio un piccolo gesto che vuol dire “vai”. Skippy, che capisce l’atmosfera, balza avanti e si siede in braccio a Veronika, pronta a partecipare attivamente alla ricostruzione.

«Bene» comincia Veronika. «Grazie alle doti investigative di Skippy a Bonifacio è saltato fuori quel pezzo di stoffa con un simbolo inciso.»

«Bisso marino» le ricordo, senza staccare gli occhi dall’orizzonte. «Il che lo rende già di per sé qualcosa di importante, visto che viene creato, incredibilmente, da un mollusco.»

«Già. Un pezzo di bisso marino con alcune incisioni» ripete Veronika, puntandomi contro l’indice come per avvalorare la mia precisazione. «Non so perché mi ha catturata subito e così ho iniziato a fare ricerche che… beh, mi hanno portato a pensare ai Giganti della Collinetta di Fango.»

Scoppiamo a ridere nuovamente entrambi, mentre Skippy ci guarda confusa, probabilmente offesa per l’uso poco epico del nome.

In questo momento arriviamo sopra Capo Frasca e noto qualcosa a terra.

«Guarda lì… com’è che la sabbia si spinge così tanto verso l’interno? Sembra che salga quasi fino alle case.»

Veronika si rimette subito al lavoro. Sfoglia rapida la guida, Skippy l’aiuta con una zampa tenendole ferma la pagina. «È la spiaggia di Torre dei Corsari» mi dice. «Quel paesino che si vede là in alto che la sovrasta.»

Poi alza gli occhi, quasi divertita: «Quella sabbia si muove. Pare che, con il vento giusto, riesca a salire fin sopra la strada. È uno dei pochi posti dove puoi parcheggiare e trovare la macchina mezza insabbiata al ritorno… anche se era ferma.»

«Un parcheggio volante, praticamente.»

Lei ride. «Sì, ma naturale. Una duna di venti metri che avanza piano piano, anno dopo anno. E nessuno riesce a fermarla davvero.»

A volte la sabbia avanza più in fretta delle certezze.

verso Capo Frasca (foto flight simulator 2024)

Buggerru

«Quindi eravamo al fatto che pensavi che il bisso e le sue incisioni fossero legate ai giganti» dico mentre sorvoliamo la costa in direzione di Capo Pecora con il mare che si apre ampio sotto di noi.

«Già» risponde lei, abbassando leggermente il tono. «Ti ho convinto a volare a Santa Teresa di Gallura per visitare il sito di Lu Brandali. C’era una foto sfocata che avevo trovato online… dove una roccia in questo luogo sembrava avere lo stesso simbolo.»

Mi giro un attimo a guardarla. Ha lo sguardo fisso sul tablet ma un velo di tristezza le attraversa gli occhi.

«Però… arrivati lì abbiamo scoperto che era solo un abbaglio. Il simbolo era diverso. Mi sono fatta confondere da una stupida foto sfocata.»

Le prendo la mano senza dire nulla per qualche istante. Poi, con tono leggero ma sincero:
«Succede. E comunque… non saremmo arrivati fin qui, in questa storia, se non fossimo partiti proprio da quel passo falso.»

Lei mi stringe la mano e sorride, in silenzio. Skippy l’abbraccia per darle ulteriore conforto.

Guardo giù. Un’altra spiaggia si allunga verso l’interno. Anche qui, come poco fa, la sabbia sale verso le colline come spinta da qualcosa che non si vede. Evidentemente, penso, in questa zona il vento ha sempre comandato la forma delle cose.

«Capo Pecora» dice Veronika, tornando a parlare. «È uno dei luoghi più selvaggi di tutta la costa ovest. Non c’è quasi niente qui: rocce, macchia, vento. Ma sotto, nella zona che chiamano Buggerru e Scivu, sono stati trovati resti di attività antichissime. Cunicoli, tracce nuragiche, persino voci di gallerie che scendono molto più in profondità del normale.»

A volte anche gli sbagli ci indicano la strada giusta.

Buggerru (foto flight simulator 2024)

Masua

Sorvoliamo una lunga distesa dorata che si perde verso l’entroterra. «bella questa spiaggia» dico mentre la osservo allungarsi sotto di noi come una striscia morbida tra mare e colline.

«Portixeddu» mi dice Veronika dopo aver controllato. «È lunga quasi due chilometri. Sabbia fine, niente stabilimenti. Solo vento e onde. Dice che era frequentata dai pescatori e dai minatori in cerca di silenzio.»

Alla fine della spiaggia appare un piccolo paese incastonato tra le montagne, come aggrappato ai pendii. Le case sono addossate l’una all’altra, incorniciate dal verde e dal blu del mare.

«È Buggerru», dice Veronika. «A inizio Novecento la chiamavano “la piccola Parigi” per via delle case eleganti costruite dai dirigenti della compagnia mineraria francese che operava qui. Ma era anche un luogo di lotte e di dolore. Proprio da qui, nel 1904, partì una delle prime manifestazioni operaie della Sardegna. La repressione fu durissima. Tre minatori furono uccisi.»

Pochi istanti dopo, più avanti sulla costa, compare un profilo che cattura subito lo sguardo: una parete di roccia forata, come scolpita da una mano umana. Ai suoi piedi, un piccolo promontorio con costruzioni che sembrano uscite da un’altra epoca.

«Lì è Masua» continua lei, indicando col dito. «E quella è la bocca di Porto Flavia. Una galleria scavata nella roccia per caricare i minerali direttamente sulle navi. Dietro quella parete c’è tutto un sistema di cunicoli e binari. Un capolavoro ingegneristico. E anche una delle immagini più iconiche della Sardegna dimenticata.»

Resto un momento in silenzio. “stupenda” esclamo. Poi più avanti indico un punto all’interno, un po’ più lontano dalla costa.

«Là dietro c’è Iglesias. Avevo pensato di includerla nella rotta ma era troppo fuori traiettoria. Dovevamo fare delle scelte.»

Veronika scuote la testa piano. «Non fa niente, te ne parlo io.»

Sfoglia qualche pagina e inizia a leggere: «Iglesias è una città antica, con una lunga storia legata alle miniere. Prima ancora, fu un centro fortificato nel periodo giudicale. Il suo nome viene da “Ecclesiae”, per via delle tantissime chiese presenti. Ce ne sono più di venti nel centro storico. E poi ci sono ancora i resti delle mura pisane, costruite nel Duecento. Pare che i Pisani la considerassero così importante da difenderla come una piccola roccaforte nel sud dell’isola.»

Chiude la guida e mi guarda. «Era una città di ricchezza e fatica. Di preghiera e di ferro. E anche se oggi è un po’ fuori dalle rotte turistiche ha ancora un’anima forte.»

Da qui in avanti, la costa si fa ancora più scoscesa. E qualcosa ci dice che il meglio deve ancora arrivare.

Alcuni luoghi resistono al tempo con la sola forza della memoria.

Porto Flavia (foto yepsea.com)

Tre Isole

Siamo in vista di Portoscuso e delle isole di San Pietro e Sant’Antioco. La luce del sole filtra tra le nuvole con quei raggi obliqui che sembrano accarezzare il paesaggio. Il mare sotto di noi è calmo, punteggiato da riflessi argentati. Le ombre delle nuvole scorrono leggere sulla superficie, come se stessero giocando a rincorrersi con l’orizzonte.

Veronika torna a ricordare. «Menomale che la guida di Lu Brandali ci ha parlato di Gavina.»

«Infatti» rispondo io, con un mezzo sorriso. «Se non avessimo incontrato di nuovo la guida, ora saremmo sul versante opposto dell’isola.»

Lei si volta, con un’espressione mista tra complicità e dispiacere. «Lo so che ti sarebbe piaciuto di più… ma questa avventura la volevo proprio tanto seguire.»

Skippy, senza esitazione, la indica con la zampa come a dire “ha ragione lei”. Ci scappa da ridere.

«Va bene così» le dico. «È stato divertente, piacevole… e poi, a me importa stare insieme. Viaggiare. E soprattutto vederci felici e affiatati come oggi.»

Veronika mi guarda per qualche secondo in silenzio, poi sorride. «Oh, quello dev’essere Portoscuso» dice indicando la costa.

«Qui c’era una delle tonnare più importanti del Mediterraneo» continua. «Fino a pochi decenni fa, la pesca del tonno qui era tutto. E il nome del paese viene da “porto oscuro”, perché un tempo era nascosto, protetto dalle rocce. Quasi invisibile dal mare.»

Poi indica a destra. «Quella è l’isola di San Pietro. A colonizzarla, nel Settecento, furono pescatori liguri provenienti da Tabarka, in Tunisia. Ancora oggi parlano un dialetto genovese: il tabarchino

«E lì davanti invece… Sant’Antioco. È collegata alla terraferma da un istmo. E pare sia uno dei luoghi abitati più antichi d’Italia. Fondata dai fenici, poi cartaginese, poi romana. E ancora oggi ci sono zone dove si parla il sardo più arcaico di tutta l’isola.»

Le isole ci vengono incontro, lente. Il sole le illumina a tratti e il volo, per un momento, sembra sospeso nel tempo.

Ci sono luoghi che non chiedono di essere spiegati. Basta sorvolarli per capirli.

Isola di Piana, l’isola dei Ratti e San Pietro (foto flight simulator 2024)

Carloforte

Sorvoliamo due piccoli lembi di terra appena emersi dal mare. Da qui sembrano scogli allungati ma Veronika riconosce subito il profilo sulla mappa di bordo.

«Sai che questo isolotto qui sotto si chiama… isola dei Ratti?» dice sorridendo, mentre indica il punto esatto. «Pare che il nome venga dal fatto che, per secoli, le barche lasciavano qui provviste e i ratti, quelli veri, si moltiplicavano in fretta. Per anni non è stato altro che uno scoglio infestato.»

Poi allarga il braccio verso destra. «Quella più grande invece è l’isola di Piana. Oggi è una proprietà privata ma un tempo era utilizzata per l’allevamento del tonno rosso. Qui si tenevano le tonnare fisse, legate a Carloforte, e tutta l’economia girava intorno al mare.»

«Un’intera isola privata. Che bello sarebbe averne una» commento

Mentre questo pensiero resta sospeso nell’aria ci avviciniamo a Carloforte, il centro principale dell’isola di San Pietro. Veronika sospira. «Questa città è un piccolo mondo a parte. Parla un dialetto ligure, cucina come in Tunisia e vive con il ritmo del mare.»

Poi torna al filo della nostra storia, come se il volo stesso glielo avesse appena ricordato. «Dicevamo che Gavina ci ha accompagnato a Cabras. Lì lavora ancora una sua vecchia collega, la direttrice del museo. Ci ha fatto vedere due reperti che pensa siano collegati a quello che stiamo cercando.»

«Uno dei due… interessante ma poco chiaro» aggiungo. «Una figura più alta delle altre tre. Potrebbe rappresentare un gigante o forse una persona, un’entità importante per quel gruppo.»

Il motore ronza tranquillo. Sotto di noi, l’isola scorre lenta. E qualcosa, tra le nuvole e il mare, ci spinge a continuare.

Ogni isola ha la sua voce. Basta volare bassi per sentirla.

Isola di Piana (foto flight simulator 2024)

Calasetta e Sant’Antioco

Sorvoliamo la punta settentrionale dell’isola di Sant’Antioco passando sopra Calasetta, un piccolo paese bianco affacciato sul mare. Le case sembrano scolpite nella luce, allineate come conchiglie e le strade disegnano un reticolo semplice tra i tetti bassi e le barche in porto.

«Calasetta fu fondata nel Settecento da coloni provenienti da Tabarka, come per Carloforte» racconta Veronika. «Ma qui parlano un tabarchino diverso, più influenzato dal sardo. È un paese di pescatori e di artisti, pieno di gente che sa costruire le reti con le mani e le storie con le parole.»

Poi guarda verso sud, oltre le colline. «Tutta questa parte dell’isola è piena di reperti nuragici. Tombe dei giganti, pozzi sacri. Alcuni sono ancora semi-sommersi dalla vegetazione. Pochi turisti ci vanno ma chi cerca davvero, trova.»

Ci avviciniamo lentamente alla cittadina di Sant’Antioco, adagiata sul lato orientale. Il centro è più grande, vivo, con strade che scendono verso il mare. Dal cielo si vedono le cupole delle chiese e i moli affacciati sulla laguna.

«Sai la cosa più assurda è che, sotto le case moderne, ci sono ancora interi tratti di necropoli scavate nella roccia. Qualcuno vive letteralmente sopra le tombe antiche.»

Poi torna al nostro filo ispirata da quella stratificazione di epoche.
«La seconda tavoletta invece era molto più interessante. A quanto abbiamo capito si tratta di un codice segreto. Qualcuno, in epoca più recente, ha provato a imitarlo, creando un linguaggio simile. E quel simbolo inciso sul bisso… potrebbe far parte proprio di quel sistema. La direttrice ha qualche ipotesi ma nulla di certo. Non è ancora stato decifrato davvero.»

Lo dice mentre sorvoliamo le saline di Sant’Antioco. Le vasche rettangolari si allungano come specchi, alcune bianche, altre rosate e la luce del tramonto le trasforma in un mosaico silenzioso.

Ci sono verità che affiorano lente, come isole nel sale.

Calasetta a Sant’Antioco (foto flight simulator 2024)

Oltre il Confine

Inizio a prendere quota per superare i rilievi che ci separano dalla costa meridionale. Il paesaggio cambia: le curve si stringono, le rocce si fanno più scure e il vento accarezza l’aereo con una leggerezza nuova. Davanti a noi, tra una piega del terreno e l’altra, noto strane geometrie sul suolo: rettangoli perfetti, strade sterrate, spiazzi che sembrano preparati per qualcosa che non ha a che fare con la natura.

«Che cos’è quella roba laggiù? Sembra… un campo di manovra?»

Veronika si sporge leggermente, osserva, poi annuisce. «Sì. È una zona militare. Uno dei principali poligoni italiani: Capo Teulada. Viene usato per esercitazioni, test, manovre. Lì dentro fanno di tutto: blindati, artiglieria, simulazioni navali. È un’area chiusa e da anni ci sono polemiche sulla sicurezza ambientale… ma nessuno ha mai raccontato davvero cosa succede lì.»

Skippy si appoggia al finestrino per poter osservare meglio tutti quei segni strani mai visti fino ad ora. Segni di cingoli, piccoli crateri d’esplosione. Skippy li osserva in silenzio. Forse pensa che non ne valga la pena. Non per questo paesaggio.

Sorvoliamo il confine visibile tra il verde naturale e la terra battuta dagli uomini e, appena dopo il crinale, il panorama si apre di colpo: la piana di Pula si distende come un tappeto che arriva fino al mare.

Veronika torna al nostro discorso, quasi come se avesse aspettato quel momento.
«La direttrice ci ha poi accennato ad altri dettagli su Ampsicora e sulla sua fuga. Dice che c’è chi sostiene sia morto ma lei è convinta che sia riuscito a scappare. Non sa dove… ma ci ha detto che potrebbe saperlo una persona molto informata che si trova proprio lì, a Nora

Tra segreti militari e memorie antiche ogni crinale può nascondere una risposta.

Segni dei cingoli a Capo Teulada (foto flight simulator 2024)

Atterraggio

Sorvoliamo la zona industriale di Sarroch, dove ciminiere e strutture metalliche si alternano a campi coltivati e nastri d’asfalto. La luce del tardo pomeriggio rende tutto meno ruvido, quasi cinematografico. Inizio ad abbassare la quota mentre ci dirigiamo verso Cagliari ormai vicina.

Una fila di pale eoliche si staglia contro il cielo, immobili per un attimo, come se ci stessero aspettando. Sotto di loro, enormi cumuli di sale, ordinati in file regolari. Li sorvoliamo con un leggero colpo d’ala, poi ci immettiamo nel circuito di discesa verso l’aeroporto.

Skippy salta con agilità sul sedile posteriore e si allaccia la cintura con il solito gesto goffo ma deciso. Veronika chiude la guida, scatta un’ultima foto dal finestrino e mette via anche la fotocamera, con un piccolo sospiro.

Mi allineo alla pista. Vento leggero, contatto morbido. Le ruote toccano terra e il paesaggio rallenta attorno a noi.

Spegniamo tutto ma non la tensione che resta sospesa nell’aria.

Domani ci aspetta Nora.
E con lei, forse, qualcuno che conosce la parte mancante di questa storia.
Quella che ancora non siamo riusciti a decifrare.

Non tutte le piste portano a un aeroporto. Alcune portano alle risposte che stai cercando.

Atterraggio a Cagliari (foto flight simulator 2024)

13 – Diario di Viaggio Oristano

Colazione Sarda

La pancia di Skippy continua a brontolare, un ritmo nuovo dopo il russare regolare del volo. Ora trotterella nervosa con il musetto all’insù, visibilmente affamata e decisa a farcelo notare: ha bisogno di energie per affrontare una giornata del genere.

Mentre siamo in viaggio verso il museo di Cabras, Gavina indica una piccola panetteria lungo la strada e ci propone di fermarci. Il profumo di grano e dolci fritti riempie l’aria come una promessa difficile da ignorare.

Gavina ci consiglia di provare le pàrdulas, piccole tortine di ricotta e scorza d’arancia dal profumo intenso, e Veronika, incuriosita, la segue senza esitazioni. Io mi lascio tentare da un pezzo di pan’e saba, un dolce scuro, umido e speziato a base di mosto cotto, perfetto per queste giornate di vento salmastro. Skippy, invece, si appropria con solennità di una mezza seada, una frittella ripiena di formaggio e ricoperta di miele caldo, che le cola giù dalla zampetta con una lentezza quasi cerimoniale. La annusa con rispetto, la tocca delicatamente con le zampette, poi dà un primo morso e si ferma, immobile, come se il sapore meritasse qualche secondo di silenzio. E non ha tutti i torti.

Riprendiamo il tragitto verso Cabras. La strada taglia i campi e le nuvole grigie corrono basse sopra di noi. Gavina abbassa la voce, con gli occhi fissi sull’orizzonte. «Non sono certa che vorrà mostrarvi quei reperti» dice, quasi parlando a sé stessa.

L’ho sospettato sin da quando ho incrociato il suo sguardo all’aeroporto. Ora quel dubbio prende forma ma lo tengo per me. Se c’è qualcosa che ho imparato da quando siamo arrivati in Sardegna è che certi silenzi sono più utili delle rassicurazioni.

Veronika, seduta accanto a Gavina sul sedile posteriore, si sporge appena in avanti. «E se dovesse rifiutare? Se fosse un altro vicolo cieco?»

Gavina non risponde subito. Poi volta leggermente il capo, con un sorriso sottile e fermo. «Penso di sapere come parlarle. In fondo anche lei ha sempre avuto una fame latente di risposte. Più di quanto lasci credere.»

Arriviamo al museo di Cabras mentre il vento comincia ad alzarsi, sollevando piccole spirali di polvere e odore di salsedine. Skippy salta giù dal sedile e si stiracchia. Sembra tornata alla sua solita energia: ora è pronta a seguire quel filo invisibile che ci ha portati fin qui.

Alcuni oggetti non chiedono di essere spiegati. Vogliono solo essere visti da chi è pronto.

Pan’e Saba (foto e ricetta Dall-E)

Museo di Cabras

Appena scendiamo dall’auto inizia a piovigginare. Gocce leggere, quasi timide, che si posano sui vetri del museo come dita curiose. Skippy ci segue a passo svelto fino all’ingresso, annusando l’aria come se il profumo della pioggia le raccontasse qualcosa.

Il Museo ci accoglie con un silenzio composto. Ha aperto le porte da poco e sembra svegliarsi insieme a noi. Le voci basse dello staff si mescolano al rumore lieve della carta sfogliata nei cataloghi, l’odore della pietra e del legno cerato si confonde con quello dell’umidità appena entrata dall’esterno.

Alla reception una ragazza sui trent’anni ci saluta con gentilezza ma senza particolare entusiasmo. Gavina le chiede della direttrice con tono tranquillo. «Arriverà tra poco, accomodatevi pure nella sala principale» risponde la ragazza, indicando una porta alla nostra sinistra.

Così ci addentriamo tra le prime teche, ancora soli, mentre fuori le nuvole si addensano un po’ di più.

«Quando il museo fu aperto» inizia a dire Gavina con voce bassa ma piena «questa urna qui fece discutere non poco.»

Ci fermiamo davanti a una vetrina: al centro, un’urna funeraria in pietra con incisioni geometriche e un volto appena accennato. Antica, scolpita male, si direbbe… ma c’è qualcosa di inquieto in quelle linee.

«Alcuni dicevano che era una falsificazione. Troppo diversa da tutto il resto. Troppo “moderna”. Ma io mi sono sempre chiesta se fosse il contrario… se non fosse antichissima, al punto da non avere più niente in comune nemmeno con ciò che pensiamo di sapere del passato.»

Ci scambiamo uno sguardo breve. Veronika sembra incuriosita. Skippy si accoccola davanti alla teca e fissa il volto dell’urna come se volesse capirne l’umore.

Sto per fare una domanda quando sentiamo la voce della ragazza che ci aveva accolti. «Signora… ci sono delle persone che chiedono di lei.»

Gavina si gira. I suoi occhi brillano di un riflesso che non le vedevamo da tempo. Tra sguardi antichi e silenzi da decifrare.

La direttrice arriva qualche minuto dopo, avvolta in un impermeabile grigio scuro, i capelli raccolti in una coda morbida ancora umida di pioggia. Avrà poco meno di cinquant’anni, forse una ventina in meno di Gavina ma nei suoi occhi c’è lo stesso sguardo deciso di chi è cresciuto su questa terra, tra vento e pietra. Non è bella, almeno non nel senso canonico del termine, ma ha un volto sincero, un portamento gentile e un modo di guardare che non sfugge mai.

Appena la vede Gavina le va incontro con un passo incerto ma sorridente. Si ferma a pochi centimetri da lei e, per un attimo, le due donne si osservano, come a misurare il tempo che è passato. Poi, senza dire nulla, si abbracciano. Un abbraccio lungo, vero, che affonda nel passato. La direttrice chiude gli occhi per un istante, stringendola con forza.

«Quanti anni, Gavina…» sussurra, lasciando uscire le parole come un soffio.

«Troppi» risponde lei, mentre si staccano lentamente. Poi si volta verso di noi con naturalezza. «Ti presento due amici: Camillo e Veronika. Viaggiano per terra e per cielo… e oggi hanno bisogno di un po’ della tua luce.»

La direttrice annuisce cortese ma non sorride più. I suoi occhi passano su di noi con attenzione e il suo sguardo si fa più misurato, quasi protettivo. Intuisce qualcosa. Gavina lo capisce e cerca di essere delicata.

«In realtà… volevo chiederti se possiamo vedere alcuni dei manufatti che mi avevi menzionato anni fa. Quelli che…»

La donna la interrompe subito alzando appena la mano. Lo fa senza durezza ma con decisione. «Vieni. Meglio parlarne in privato.»

Si allontanano verso una saletta con pareti vetrate, lasciandoci soli tra le teche e i riflessi opachi del mattino. Da dove siamo non sentiamo nulla ma vediamo abbastanza. La direttrice gesticola, sembra agitata, a tratti infastidita. Gavina invece resta calma, in piedi, come se ogni parola fosse già stata pesata prima ancora di essere pronunciata.

«Non ci farà vedere nulla» borbotta Veronika, le braccia incrociate e lo sguardo fisso. «Ti avrò fatto perdere ancora tempo.»

«O forse sta solo cercando di capire se può fidarsi» rispondo io, lasciando il dubbio in sospeso.

Skippy emette un piccolo verso, poi si sistema contro la mia gamba e mi guarda con quell’espressione da piccola sentinella che conosce il mondo meglio di quanto sembri.

E poi succede.

Le vediamo avvicinarsi. Prima un ultimo scambio a bassa voce, poi un abbraccio stretto, più forte, più carico. Quando si staccano Gavina si volta verso di noi e sorride. È un sorriso calmo, sollevato, quasi complice. Ci fa cenno con la mano: possiamo andare.

La direttrice ci passa accanto senza dire nulla. Il suo volto è serio ma non freddo. Conduce il passo senza voltarsi lungo un corridoio laterale e ci invita a seguirla con un gesto discreto. Mentre entriamo in quella parte del museo dove i visitatori non arrivano mai, l’aria cambia.
Come se stessimo attraversando una soglia invisibile.

Ci sono incontri che non servono a ricordare il passato ma a riaccenderlo.

Urna misteriosa (foto Dall-E)

L’attesa dentro la pietra

La luce si fa più discreta e l’aria odora di umidità trattenuta da anni. Entriamo in una stanza d’archivio, ordinata ma vissuta, con scaffali metallici e casse impilate contro il muro. Una di queste, rivestita di legno chiaro, giace quasi nascosta su uno scaffale defilato.
La donna ci si avvicina e resta un attimo ferma, come se dovesse prendere fiato. La solleva, la posa su un tavolo al centro alla stanza, la osserva… Gavina si fa avanti con una lentezza quasi sacra, gli occhi lucidi e pieni di attesa. La direttrice la guarda. Le due si guardano e io noto la stessa luce nei loro occhi. La voglia di scoprire, dopo anni, se sono in grado di comprendere quello che anni fa le era sfuggito.

Poi la direttrice inserisce una chiave, ruota con calma e solleva il coperchio.
Gavina sembra sul punto di scartare un regalo che ha desiderato da tutta una vita.
All’interno, avvolta in un telo di lino spesso, c’è una lastra di pietra calcarea, lunga forse mezzo metro, scolpita in bassorilievo. La direttrice la poggia con delicatezza su un supporto imbottito.
«Questa è stata trovata vicino a Mont’e Prama, in un’area ancora poco scavata» mormora. «Non rientra nelle tipologie ufficiali. Alcuni pensano che sia un falso, altri che sia troppo frammentaria per raccontare qualcosa.»

Ci avviciniamo anche noi. La lastra raffigura quattro figure umane stilizzate, disposte in linea. Tre di loro hanno proporzioni simili, rudimentali, con teste rotonde e corpi appena abbozzati. Ma la quarta, quella in fondo, è diversa. Molto più grande. Almeno il doppio. Ha braccia più lunghe, un torso più spesso, e qualcosa che assomiglia a un elmo o una cresta sopra la testa.

«Potrebbe essere un capo tribale, un antenato divinizzato o solo un errore di scala» dice la direttrice con voce neutra. «Nessuno ha voluto rischiare un’interpretazione.»

Veronika la osserva senza parlare. Skippy, seduta sulla sua spalla, inclina la testa e, mantenendosi al collo di Veronika con una zampetta, si avvicina come se volesse capire meglio cosa stia guardando.
Io osservo la figura più grande, quella anomala. C’è qualcosa di potente, quasi disturbante, in quell’eccesso di proporzioni.

Ma non parla.

Non ci guida.

Ed è questo che mi preoccupa. Perché se anche il secondo reperto non ci dice nulla… allora forse, stavolta, non avrò nulla da offrire né a Veronika né a Skippy.

A volte il silenzio della pietra pesa più di qualunque risposta.

la cassa con i due manufatti (foto Dall-E)

Il Codice Interrotto

Veronika mi guarda con un velo di delusione negli occhi. Non dice nulla ma mi basta uno sguardo per capire.
Io, pur con il pensiero ancora annidato in fondo al petto, le sorrido lo stesso. Non è finita. Non ancora. E poi, comunque, qualche possibile riferimento ai Giganti lo abbiamo trovato.
La direttrice apre il secondo involto con un gesto lento, quasi rituale. Il lino si srotola con delicatezza, lasciando emergere una tavoletta in pietra grigia, leggermente più piccola della precedente ma densa, viva, quasi vibrante.

Scolpita su entrambi i lati con una cura minuziosa, la superficie è attraversata da simboli geometrici, archi concentrici, linee spezzate che sembrano rincorrersi, segni simili a lettere, ma che non appartengono ad alcun alfabeto conosciuto.

Non è decorazione.
È scrittura. Un codice, come lo aveva definito Gavina. Ma non uno lineare.
Questo si curva, si ripete, si mimetizza. Come se volesse essere compreso solo da chi ne conosceva la chiave.

«È molto più antico di tutto quello che abbiamo mai trovato a Mont’e Prama» mormora la direttrice, senza staccare gli occhi dalla tavoletta. «Ma nessuno è mai riuscito a leggerlo. È troppo distante da ogni logica nota. E troppo… coerente per essere un caso.»

Gavina si avvicina. Le dita tremano appena. Poi, con un gesto preciso, estrae dal suo zaino una fotografia plastificata e la appoggia accanto al reperto. È l’immagine sbiadita di un frammento inciso, più rozzo, più recente.

«Questo l’ho fotografato anni fa, in un deposito. Non sapevano cosa fosse. Ma guarda qui…» Indica un tratto in alto, dove due archi si incrociano. «È una copia. Non moderna ma realizzata in epoca punica o romana. Il tratto è meno profondo, meno fluido. Come se qualcuno avesse tentato di salvare un linguaggio perduto, imitandone la forma per impedirne l’estinzione.»

La direttrice si irrigidisce. Si china, osserva entrambi i reperti e per un lungo momento non dice nulla. Poi alza lentamente la testa e le sue labbra si muovono in un sussurro appena udibile.

«Ampsicora».
È un nome che cade nella stanza come una pietra nell’acqua ferma.
Il suo effetto è immediato.

«Da tempo» continua la direttrice, con voce più tesa «ho il sospetto che non fosse solo un ribelle. Ci sono tracce, minime, nascoste che lo collegano a un clan, a un gruppo chiuso, quasi invisibile, che agiva parallelamente ai poteri noti. Forse un ordine. Forse una confraternita. Nessuno ha mai voluto approfondire. Nessuno ha osato. E anche quando ci ho provato io ho avuto più volte la sensazione che mi fosse impedito di proposito.»

Gavina annuisce. «E se questo gruppo avesse cercato di proteggere un sapere che affondava le radici prima della conquista romana? Prima ancora dei Giganti?»

«O di tramandarlo in silenzio» aggiungo. «Anche a costo di frammentarlo.»

La direttrice si allontana un passo, come se stesse mettendo insieme un puzzle di cui aveva solo i bordi. Poi si volta lentamente verso di noi.

«Uno dei frammenti più simili a questo… fu trovato a Nora, vicino a Pula. Ma non era tra i materiali esposti. Era accanto a una struttura muraria fenicio-punica, rinvenuta sotto uno strato di sabbia compatta, dove si dice che si svolgassero riti riservati. Nessuno lo ha mai collegato a nulla. Fino ad ora.»

Skippy si stringe a Veronika. Io fisso quella tavoletta come se potesse ancora aggiungere qualcosa.

Non siamo più davanti a semplici reperti.
Siamo davanti a una catena interrotta, spezzata e poi ricostruita in segreto. E adesso una parte di quella catena sembra chiamarci da Nora.

Forse è davvero da lì che dobbiamo passare.
Forse il tempo non ha dimenticato tutto.
E forse… c’è ancora qualcuno che ricorda.

Alcuni segreti non si perdono. Si nascondono aspettando occhi pronti a leggerli.

la tavoletta con il presunto codice (foto Dall-E)

Ombre tra le Sale

La direttrice ripone con cura la tavoletta e richiude il contenitore con un gesto lento, quasi protettivo. Un vero e proprio rituale.

Nessuno parla mentre usciamo dalla stanza d’archivio. C’è una strana solennità nel nostro passo, come se stessimo portando fuori un segreto ancora caldo. Camminiamo nel museo con lentezza, seguendo il percorso che ci conduce verso la sala dove si ergono le statue dei Giganti di Mont’e Prama.

Le luci sono più intense qui, il silenzio più carico. Il rumore dei nostri passi sembra amplificarsi. «Ampsicora era un magistrato di Cornus» racconta la direttrice, la voce calma ma piena. «Un uomo colto, potente. Non un guerriero qualsiasi. La rivolta contro Roma fu studiata, non improvvisata.»

«Eppure è finita male» dice Gavina. «La battaglia persa, il figlio morto, lui che si toglie la vita. Almeno, così raccontano.»

«Ma se non fosse andata così?» chiede Veronika. «E se non fosse morto? E se lui… o chi era con lui… fosse riuscito a scappare?»

«Portando via quel sapere» aggiungo. «Un frammento. Una tavoletta. Magari delle copie, come quella che ci hai mostrato, Gavina. Qualcosa che doveva essere protetto a ogni costo.»

«Forse cercavano qualcuno in grado di custodirlo» riflette Gavina. «O un luogo. Un passaggio.»

«Ma dove?» sussurra la direttrice, più a se stessa che a noi. «Dopo una sconfitta così grande… chi li avrebbe accolti?» Camminiamo lentamente tra le vetrine, le teche laterali. Il museo sembra stringersi attorno a noi, come se stesse ascoltando.

Poi lo vedo.

Un uomo, a una decina di metri da noi. È fermo davanti a una delle vetrine ma non guarda i reperti. Guarda noi. È vestito in modo anonimo, forse un addetto alla sicurezza o qualcuno dello staff, ma qualcosa in lui stona. Forse lo sguardo, forse la postura. E… sì.

Sta ascoltando. Attento. Troppo.

Mi volto verso Veronika. «Ehi, guarda quel…» Indico la direzione con lo sguardo. Ma quando ci giriamo, non c’è più. Nessuna traccia.

Resto un istante in silenzio, cercando di capire se me lo sono solo immaginato. Poi scuoto appena la testa e torno al gruppo.

Il dialogo è ancora in corso, le ipotesi si rincorrono tra sussurri e domande. Ma qualcosa, dentro di me, ha cambiato ritmo. E quella figura sfuggita al mio sguardo ora cammina, silenziosa, nei miei pensieri.

Ci sono sguardi che non cercano oggetti. Cercano chi li guarda.

La Direttrice (foto Dall-E)

Sotto lo sguardo dei Giganti

«Aspettate…» dice Veronika, interrompendo il flusso di ipotesi. «Guardate queste statue. Non è incredibile che siano arrivate fino a noi?»
Ci giriamo. Le statue dei Giganti di Mont’e Prama si stagliano davanti a noi con la loro imponenza muta. Alcune sono intere, altre parzialmente ricostruite, ma tutte emanano la stessa, antica autorevolezza. Hanno occhi grandi, scolpiti a cerchi concentrici, e volti scolpiti con forme geometriche essenziali ma ipnotiche.

La direttrice sorride. È la prima volta che la vediamo davvero rilassata.
«Sono qui da anni e ogni volta che passo davanti a loro mi sembrano cambiate» dice. «Non solo per la luce o per l’ombra. Ma per come le guardiamo. O forse… per come ci guardano loro.»

Camminiamo lungo la fila e lei ci accompagna senza fretta. Ogni statua sembra avere un proprio linguaggio.
«Lui è un pugilatore» indica una figura con un grande scudo tondo piegato sul braccio sinistro. «Si riconosce dal guantone che indossa sull’altro braccio. E dalla posa: il busto un po’ inclinato, come se fosse pronto a colpire.»

Poi passa a un’altra. «Questo è un arciere. Lo vedete il copricapo? Probabilmente era in cuoio o in lino rinforzato. Ha ancora parte dell’arco nella mano sinistra. Ed è uno dei pochi con i piedi ben piantati al suolo. Come se stesse proteggendo qualcosa.»

Ci fermiamo davanti a una statua diversa dalle altre, più slanciata, con uno scudo squadrato e una veste accennata.
«E questo è un guerriero. Alcuni pensano che rappresentassero degli eroi. Altri che fossero divinità. Ma la teoria più affascinante, secondo me, è che fossero… antenati. Figure reali, idealizzate, rese immortali nella pietra per vegliare sulle tombe.»

Mi avvicino, osservando la scala.
«Ma… se erano raffigurati così… è vero che le statue erano a grandezza naturale? Parliamo di… tre metri?»
La direttrice annuisce. «Alcune erano alte anche più di due metri e mezzo, forse tre. Considerando la testa, la base, e le armi che tenevano, sì… potrebbero aver raggiunto quella misura. E questo ha alimentato l’idea che non fossero solo ritratti ma rappresentazioni di veri e propri… Giganti. Soprattutto per l’epoca.»

«Il mistero è che non esiste nulla di simile in Europa, in quel periodo» continua la direttrice. «Erano scolpite a tutto tondo, in un’epoca in cui si lavorava la pietra solo in rilievo. È come se qualcuno sapesse già cosa sarebbe venuto dopo. Ma in anticipo di secoli.»

«E allora chi le ha fatte?» chiedo. «E perché proprio lì, a Mont’e Prama
«Forse un centro spirituale. Forse una necropoli. O forse… il punto d’incontro tra la memoria e la paura. Metterle lì significava custodire qualcosa. O avvisare qualcuno.»

Le statue ci osservano in silenzio.
E in quello sguardo di pietra, scolpito tremila anni fa, sento qualcosa che non riesco a spiegare.
Una promessa.
O un avvertimento.

Alcune statue non celebrano. Vegliano.

Giganti di Mont’e Prama (foto monteprama.it)

Voci che restano

Quando ci allontaniamo dalle statue la conversazione rallenta fino a fermarsi del tutto. Restiamo in silenzio qualche istante, come se avessimo bisogno di uscire lentamente da quel tempo antico.
Poi la direttrice si ferma. Si gira verso Gavina e le prende le mani con entrambe le sue.

«Tu non vai da nessuna parte» le dice con un tono che non ammette repliche ma che trasuda affetto. «Non ci devi nemmeno pensare. Ora che ti ho ritrovata, ho intenzione di tenerti qui almeno qualche giorno. Voglio parlarti di tutto. Voglio ascoltarti. E… be’, il museo è grande. E casa mia ha ancora una stanza libera.»

Gavina accenna un sorriso, poi ci guarda. «Per voi… va bene?»

«Certo che va bene» rispondo subito. «Ti terremo aggiornata. Promesso. Ti diremo tutto quello che troveremo a Nora».

Skippy si avvicina a Gavina e la abbraccia, stringendole le braccia con delicatezza. Lei si intenerisce, le accarezza il capo e si guarda intorno. Raggiunge il bancone dei souvenir e prende una piccola riproduzione in pietra del volto di un Gigante, con una lieve scheggiatura su un lato. Guarda la direttrice che annuisce senza dire nulla.

«È un po’ storto» dice Gavina sorridendo, porgendoglielo. «Ma ha qualcosa che somiglia al tuo sguardo.»

Skippy lo prende con una cura commovente, lo osserva in silenzio e poi la abbraccia di nuovo, più forte. C’è dolcezza e una gratitudine che non ha bisogno di parole.

La direttrice si volta verso di noi. «Quando sarete là, andate al Centro di documentazione archeologica di Nora. È piccolo ma conserva reperti che non sono visibili sul sito. Chiedete del professor Lissia. È in pensione da anni ma vive praticamente tra quelle sale. Non so se sarà facile trovarlo ma se c’è qualcuno di cui mi fido… è lui.»

«È esperto di questo codice?»

«Ha visto più reperti di quanti ne possiate immaginare. E soprattutto… conosce Ampsicora. Lo ha studiato, inseguito, ricostruito a modo suo. Se c’è una mente capace di mettere ordine tra le tracce è la sua.»

Ci salutiamo davanti all’uscita del museo. La luce è cambiata, la pioggia ha lasciato un’aria pulita e frizzante. Gavina ci abbraccia, un abbraccio lungo e silenzioso. La direttrice ci stringe la mano con calore e un rispetto nuovo negli occhi.
Poi usciamo.
E dietro di noi, le statue tornano al loro silenzio.
Ma ora so che ci stanno seguendo. Anche loro.

Il viaggio verso Oristano scorre in silenzio. Ognuno di noi è immerso nei propri pensieri, come se tutto quello che abbiamo visto, sentito e toccato oggi avesse bisogno di tempo per sedimentare. Il cielo si è rasserenato ma nell’abitacolo resta una tensione lieve, fatta di domande non dette e intuizioni che cominciano appena a prendere forma.

Ci sono incontri che vanno custoditi. Come i reperti più fragili.

Souvenir di Skippy (foto Dall-E)

Verso sud

Arriviamo in città poco prima di pranzo, quando le prime ombre iniziano ad accorciarsi e il centro si riempie dell’odore di pane caldo e carne arrosto. Troviamo una piccola trattoria nascosta tra le vie del centro storico, una di quelle con i tavoli in legno grezzo e il profumo di cucina vera che ti accoglie ancor prima di sederti.

Ordiniamo piatti della zona: un piatto abbondante di porceddu arrosto, il maialetto da latte sardo cotto lentamente allo spiedo su legna di mirto e lentisco, dalla carne tenera e profumata e la crosta croccante che scricchiola sotto i denti. Lo servono su un letto di rami aromatici, ancora caldo, con accanto patate dorate e pane carasau. Poi una bottiglia di rosso sardo, corposo, che sa di terra e vento.

Durante il pranzo, le parole tornano a fluire. Parliamo a bassa voce di ciò che abbiamo scoperto, di Nora, del professor Lissia, di quella tavoletta e del codice spezzato.

Ogni tanto ci fermiamo. Per mangiare, per pensare. Per osservare Skippy che affronta il suo porceddu con un rispetto quasi cerimoniale… salvo poi divorarlo con un entusiasmo che fa voltare un paio di tavoli vicini. Alla fine, si lecca le zampette come se avesse appena firmato un trattato di pace col popolo sardo.

«Ok, finito di mangiare partiamo» dice Veronika con gli occhi già rivolti al sud. «E niente deviazioni stavolta. Dritti a Nora.»

«Un attimo…» rispondo sorridendo. «Che ne dici se partiamo nel tardo pomeriggio? E poi c’è un tratto di costa che voglio sorvolare. Merita.»

Lei mi guarda, un po’ contrariata, un po’ divertita. «Un compromesso?»

«Un compromesso» confermo. «Come sempre. Tu insegui la storia, io inseguo la bellezza. E a volte, si incontrano.»

Skippy approva sollevando il cucchiaio verso di me, come a dire “ha ragione lui”. Anche lei ama volare. E lo sa bene.

Usciamo che il sole è ancora alto. L’aria profuma di terra bagnata e legna accesa, anche in pieno giorno.
Camminiamo tra le strade di Oristano, le parole che si diradano, sostituite dal rumore dei nostri passi.

Tra poco saremo nuovamente in volo.
Ma la vera avventura sarà quello che ci aspetta a terra.
E se davvero c’è ancora qualcosa da trovare…
questo Professore sarà disposto a farcelo scoprire?

Ci sono storie che aspettano in cielo. Ma il cuore le trova camminando.

Porceddu Arrosto (foto Dall-E=

13 – Diario di Volo Alghero Oristano

Risveglio difficile

La casa di Gavina è immersa nel silenzio. Fuori la notte sta cedendo lentamente al primo chiarore dell’alba ma dentro le stanze tutto è ancora fermo, quasi sospeso nel tepore del sonno.

Ci muoviamo con discrezione, cercando di non fare troppo rumore mentre raccogliamo le nostre cose e beviamo al volo un caffè. Il tempo è prezioso: dobbiamo decollare presto per raggiungere il museo a Oristano in mattinata e avere tempo per approfondire ogni dettaglio.

Solo una di noi non sembra avere alcuna intenzione di alzarsi. Skippy, la nostra piccola fennec, è completamente abbandonata su un cuscino, le zampe allungate, le orecchie rilassate.

E russa. Forte.

Veronika si avvicina e la osserva con un sorriso divertito. «Povera piccolina, l’ho vista girarsi e rigirarsi nel sonno queste ultime notti. Aveva sicuramente bisogno di recuperare.»

Gavina suggerisce una soluzione: «Lasciatela dormire, la portiamo così com’è.»

E così, con la delicatezza di chi trasporta un vaso antico, adagiamo Skippy nello zaino di Veronika, lasciandole la testolina fuori come fa di solito quando non vuole camminare. Il tutto mentre lei continua a russare beata, del tutto ignara della missione di recupero che ha richiesto tre adulti.

Anche chi viaggia tra cielo e storia ha bisogno di dormire come un cucciolo che si finge eroe.

preparativi pre volo (foto flight simulator 2024)

Preparativi prima del volo

Il piccolo aeroporto di Alghero è tranquillo a quest’ora del mattino. L’aria è ancora fresca e il cielo si tinge di sfumature rosa e arancioni mentre ci avviciniamo al nostro Cessna parcheggiato ordinatamente nella piazzola in cui l’avevamo lasciato.

Mentre io effettuo i controlli pre-volo, Veronika si occupa di rimuovere le protezioni del velivolo, spiegando ogni passaggio a Gavina che la osserva con curiosità.

«Questa è la copertura del pitot» indica, sollevando il piccolo tappo rosso attaccato a un nastrino con la scritta “remove before flight” che pende dall’ala sinistra. «Serve a proteggere il tubo di Pitot, quello che ci fornisce la velocità dell’aria. Se ci entra sporco o insetti, potrebbe dare letture sbagliate e non è il massimo quando sei in volo.»

«Ah!» esclama Gavina, visibilmente interessata. «Quindi è una protezione per gli strumenti?»

«Esatto» annuisce Veronika, mentre si sposta verso il carrello anteriore. «E questi invece sono i blocchi delle ruote, i cunei. Servono per tenere fermo l’aereo quando è parcheggiato, soprattutto se c’è vento.» Si ferma un attimo, poi ridacchia. «Di solito se ne occupa Skippy ma credo che oggi tocchi a me.»

Quando passano accanto al finestrino posteriore, sentono un suono familiare. Skippy sta ancora russando. «Si sveglierà quando accenderemo il motore.» dice Veronika scherzando.

Gavina ride a sua volta e scuote il capo. «Sembra proprio che si fidi completamente di voi.»

«O che sia completamente distrutta» aggiunge Veronika con un sorriso mentre ripiega le coperture del motore.

Tutto è pronto. Salgo a bordo, accendo la strumentazione e faccio scorrere le ultime checklist.
Il sole si è ormai alzato sopra l’orizzonte, illuminando la pista con una luce dorata. È ora di partire.

Ogni volo inizia con piccoli rituali, sorrisi, complicità e tecnica.

decollo da Alghero (foto flight simulator 2024)

Primo volo su un Cessna

Il motore del Cessna 172 prende vita con il suo ruggito familiare, oggi gareggia col russare di Skippy. Un suono rassicurante per noi ma probabilmente non per Gavina. La nostra passeggera cerca di apparire composta ma il suo sguardo tradisce l’emozione. Le mani stringono con discrezione le ginocchia mentre gli occhi guizzano rapidi tra il cruscotto e l’orizzonte oltre il parabrezza.

«E quindi… ehm… com’è che si fa a sapere se… insomma, se tutto è pronto per decollare?» chiede, cercando di mascherare la sua agitazione con un tono curioso.

Sorrido mentre completo gli ultimi controlli, scorrendo con lo sguardo gli strumenti di bordo. «Abbiamo già verificato tutto. Ora aspettiamo l’autorizzazione e poi ci allineiamo in pista.»

Gavina annuisce ma l’espressione sul suo viso suggerisce che sta elaborando una valanga di domande.

«E… il vento? Cioè, cambia qualcosa se c’è vento?»

«Sì, certo» risponde Veronika cercando di avere un tono rassicurante. «Decolliamo sempre controvento per avere più portanza sulle ali. In pratica ci aiuta a staccarci prima da terra.»

Gavina annuisce di nuovo, come se fosse perfettamente chiaro, ma dopo un secondo: «E il motore? Dico, se per caso… cioè, se ci fosse un problema, si spegne?»

Trattengo una risata. «No, Gavina, non si spegne. E comunque abbiamo procedure di sicurezza per ogni evenienza.»

Non sembra completamente convinta ma si sforza di sorridere anche lei. Respira profondamente, guardando fuori dal finestrino mentre rulliamo verso la testata della pista. Il Cessna vibra leggermente sotto di noi, la fusoliera riflette la luce dorata del mattino e l’orizzonte davanti sembra infinito.

Quando riceviamo l’autorizzazione al decollo, mi giro verso di lei. «Pronta?»

«Prontissima» risponde in un tono un po’ troppo deciso, come se volesse convincere più se stessa che noi.

Spingo gradualmente la manetta in avanti. Il rombo del motore cresce, la pista scorre veloce sotto di noi e in pochi secondi sentiamo il momento esatto in cui le ruote smettono di toccare terra.

Gavina trattiene il fiato e, solo quando il Cessna si stabilizza in aria, osa guardare di sotto. Il paesaggio si spalanca sotto di noi: la costa nord-occidentale della Sardegna si stende come un quadro in movimento, le onde lambiscono la riva e le colline si illuminano sotto il primo sole.

«Oh…» sussurra. Poi si copre la bocca, come se avesse appena rivelato un segreto.

Veronika sorride. «Tutto bene?»

Gavina annuisce lentamente. La tensione nelle sue spalle si scioglie un po’. «Sì. È… incredibile.»

«Già» rispondo, sorridendo. «E abbiamo appena iniziato.»

Da dietro un suono ovattato ci distrae un attimo. Skippy, ancora nello zaino di Veronika, emette un piccolo mugolio nel sonno e si gira leggermente. Non ha neanche sentito il decollo.

«Direi che qualcuno è il passeggero più rilassato di tutti» commenta Veronika ridendo.

Gavina sorride, stavolta senza più tensione. Il cielo è aperto davanti a noi e il nostro viaggio tra le pietre della storia è ufficialmente iniziato.

Le emozioni non si mascherano tra le nuvole e il primo decollo non si dimentica mai.

Gavina in cabina per il suo primo volo su un Cessna (foto flight simulator 2024)

Voci di pietra

Appena lasciata Alghero saliamo dolcemente di quota puntando a sud-est.

La luce del mattino accarezza le colline e rivela, poco sotto di noi, una muraglia ciclopica che si snoda sul pianoro.

«Eccolo lì… Monte Baranta» sussurra Gavina, come se stesse salutando un vecchio amico. Si sporge leggermente per osservare meglio, gli occhi che brillano nonostante l’altitudine. «Ci ho passato mesi lassù. È uno dei siti prenuragici più affascinanti di tutta l’isola. Vedi quella linea spezzata? Quella è la muraglia megalitica. Alta cinque metri, costruita tremila anni prima di Cristo. Non c’era niente di simile nel Mediterraneo occidentale a quel tempo. Niente.»

Rallento leggermente per darle tempo di raccontare.

«Era una fortezza, sì, ma anche un luogo sacro. C’era una piattaforma cerimoniale, un menhir enorme, non lo issarono mai, lo lasciarono lì, abbattuto. Chissà perché. Forse fu un segno. Forse qualcosa li spinse ad abbandonare tutto. A volte penso che certe pietre custodiscano più domande che risposte.»

Ci guardiamo in silenzio mentre sorvoliamo il sito. In basso la muraglia sembra un’ombra che resiste al tempo, un graffio inciso nel verde della macchia.

«I nuraghi non erano ancora nati» aggiunge, con voce più bassa. «Eppure qui c’erano già uomini che costruivano con intelligenza, che difendevano, pregavano, vivevano. È da lì che inizia tutto.»

Viro verso sud seguendo il profilo morbido delle colline. Alle mie spalle la voce di Gavina riprende a fluire, profonda e viva, come un racconto che non vuole più restare in silenzio.

Sorvoliamo Santu Pedru ma è come se sorvolassimo anche i suoi ricordi, la sua terra, la sua vita passata tra studi, scavi e meraviglia.

«Quelle sono le Domus de Janas, le case delle fate» dice, indicando con un cenno le aperture regolari visibili dall’alto. «Scavate a mano nel Neolitico. Le usavano per seppellire i defunti ma anche per comunicare con l’aldilà. Ogni tomba era scolpita come una casa: con travi finte, porte chiuse, stanze interne… era il modo per accompagnare i morti in un altro tipo di vita, non per lasciarli andare.»

Veronika si gira appena, catturata.

«Le decoravano con ocra rossa, simbolo di sangue, di rinascita. Alcune hanno corna di toro incise alle pareti: un richiamo alla fertilità, alla forza… ma anche alla morte, che faceva parte del ciclo.»

«Quindi erano più che tombe» commento, lasciando che l’aereo scivoli dolcemente lungo la curva.

«Molto di più» conferma Gavina. «Erano il grembo della Terra. Ci si tornava per celebrare i riti, per chiedere protezione. Non si seppelliva e basta… si restava in relazione con i propri antenati.» Poi si fa silenziosa per un istante ma continua a fissare le rocce rosse laggiù. «Quella trachite ha visto passare migliaia di anni. E ancora ci parla, se sappiamo ascoltare.»

Le pietre parlano, se le sorvoli col cuore aperto e chi ti guida ha la voce dell’esperienza.

Alghero in lontananza con Capo Caccia illuminato (foto flight simulator 2024)

Ombre antiche

La vegetazione si fa più rada e il paesaggio si apre a campi e rocce affioranti. La tomba dei giganti di Laccaneddu appare come un allineamento discreto ma solenne, appena visibile dall’alto, nascosta tra cespugli e pietre silenziose.

«Questa» dice Gavina «è una delle tombe più antiche che ho avuto la fortuna di studiare da vicino. È lì che ho iniziato a capire che “giganti” non era solo una leggenda… ma neppure solo un nome.»

Veronika si volta verso di lei, incuriosita. «C’erano ossa fuori misura?»

Gavina sorride ma non si lascia ingannare dalla semplicità della domanda. «No. Nessun ossa enormi, niente scheletri di tre metri. Almeno, non nei contesti ufficiali, nei registri archeologici. Però…» Fa una breve pausa, lo sguardo perso oltre il finestrino. «Però ci sono storie. Racconti tramandati a voce, contadini che giurano di aver visto resti fuori scala, tombe chiuse in fretta o pietre che non si dovevano toccare. E poi ci sono le steli monumentali, le camere più grandi del necessario, le forme insolite. Qualcosa resta, anche se sfugge alla scienza.»

Ci guardiamo in silenzio mentre l’aereo procede sopra il sito.

«Il nome “tomba dei giganti” è moderno, sì. Popolare ma il fascino che suscitano… quello è reale. Nessuno che ci sia passato accanto è riuscito a ignorarle. E se i giganti non erano di carne, forse erano di memoria. O di conoscenza. O erano un’eco di un popolo ancora più antico, che la civiltà nuragica ha raccolto, custodito e trasformato.»

Il Cessna prosegue tranquillo, accarezzando l’aria.

Gavina accenna a un altro sito, più avanti. «E lì, poco oltre… c’è Puttu Codinu, un’altra necropoli.»

Rimango un attimo in silenzio, poi chiedo: «Ma queste necropoli… hanno davvero un legame con le leggende? Con le fate, con i giganti? Oppure è solo fantasia?»

Gavina annuisce lentamente, come se avesse atteso quella domanda. «Le necropoli come questa non erano semplici cimiteri. Erano santuari. Spazi di passaggio e di contatto. Le camere sono scavate come case: travi scolpite, tetti a spiovente, nicchie. È come se volessero offrire al defunto una dimora vera, scolpita nella roccia per resistere all’eternità.»

Annuisco, osservando il paesaggio sotto di noi modellato da mani millenarie con rispetto e fede.

«E poi i simboli…» continua lei. «Le protomi taurine, i menhir piantati all’esterno, le tracce di ocra. Ogni elemento era un messaggio. Solo che oggi non abbiamo più il codice per decifrarlo fino in fondo. A volte penso che la vera eredità sia proprio questa: il diritto di continuare a cercare. Forse è per questo che ero così determinata a seguire la traccia che ora state seguendo anche voi.»

Per un istante, nessuno parla. Sorvoliamo la necropoli in silenzio, con la sensazione che, laggiù, qualcosa stia ancora aspettando.

E se davvero alcune verità fossero state affidate alla pietra in attesa che qualcuno le riconoscesse?

Lo penso senza dirlo mentre davanti a noi il paesaggio continua a scorrere, lento e immobile al tempo stesso.

Non sempre i giganti sono di carne. A volte abitano nella memoria o nelle domande che restano.

il Golfo di Oristano con la sua laguna (foto flight simulator 2024)

Scosse leggere

Sorvoliamo le ultime pieghe della collina, mentre Gavina indica con lo sguardo un piccolo corso d’acqua che brilla tra gli ulivi.

«Quello è il Rio Trogos. E proprio lì, un po’ più a monte, ci sono alcuni enormi blocchi disposti in modo regolare. C’è chi lo chiama il ponte nuragico

«Un ponte?» chiedo, incuriosito. «Riuscivano davvero a spostare massi così grandi, già allora?»

Gavina sorride «Non lo sappiamo con certezza. Ma è questo il bello: anche quando le risposte sembrano semplici la terra resta più antica delle nostre certezze. Se davvero quei blocchi sono stati posizionati tremila anni fa… vuol dire che sapevano muovere la pietra come nessun altro.»

Veronika si volta con un mezzo sorriso. «O magari… sono stati i giganti

Gavina si lascia andare a una breve risata, poi risponde senza ironia: «Potrebbe anche essere. Ma servirebbero ulteriori prove, non bastano le leggende. Anche se certe storie, a forza di tramandarle, finiscono per depositarsi sulla verità come la polvere su una stele: invisibili ma presenti.»

L’aereo prosegue tranquillo e davanti a noi si apre la piana di Ollastra, punteggiata di campi e antichi muretti. Gavina indica un rilievo tondeggiante appena oltre una macchia di vegetazione.

«Là c’è la tomba dei giganti di Pranu Ardu. Era una delle più grandi della regione. Oggi resta poco: la stele è crollata, la struttura è in parte sepolta, ma intorno a quel sito… ho sempre sentito un’energia divers… »

Si interrompe di colpo.

«Aaaaaaah!» esclama, scattando di lato e sbattendo contro il finestrino sinistro. Il Cessna si inclina bruscamente verso sinistra, quanto basta per farci perdere l’equilibrio per un istante.

«Gavina?!» chiedo, voltandomi di scatto.

La scena che vediamo ci spiega tutto: Skippy, appena sveglia, ha allungato una zampina sul fianco di Gavina che, dimenticandosi completamente della sua presenza, ha sobbalzato di riflesso, sbattendo contro la fusoliera.

Veronika scoppia a ridere. «Ah, buongiorno principessa!»

Skippy la guarda confusa, guarda Gavina, guarda me… poi sbadiglia vistosamente, le orecchie un po’ piegate. Si sistema sul sedile, ancora in bilico tra sogno e realtà.

Gavina si rimette a posto con una risata trattenuta. «Scusate. Mi ha preso alla sprovvista. Giuro che me ne ero dimenticata!»

«Tranquilla, anche i ricercatori ogni tanto rimuovono i dettagli importanti» scherzo, riportando l’aereo in assetto.

Le risate riempiono la cabina per un momento. La tensione è svanita, sostituita da quella leggerezza che solo certi attimi condivisi in volo sanno creare. Davanti a noi la pianura si allunga verso sud. Oristano si avvicina.

Quando la scienza dimentica una zampa, ci pensa Skippy a ricordarle che siamo vivi.

Sorvolo dell’aeroporto di Oristano (foto flight simulator 2024)

Coordinate interiori

Poco dopo appaiono i primi tetti di Oristano, bassi, compatti, stretti tra terra e cielo.

«Una città che non ama mettersi in mostra» commenta Gavina, indicando la trama di strade e piazze laggiù. «Ma chi la conosce sa che custodisce più storia di quanto sembri. Le sue origini sono giudicali, medievali. Ma c’è molto di più, se si guarda con attenzione.»

Sorvoliamo il centro storico, la torre di Mariano, il profilo della cattedrale e il disegno chiuso dei quartieri antichi.

«Sai che qui si dice che il vento non cambi solo il tempo ma anche l’umore delle persone?» continua lei, sorridendo. «Lo chiamano il maestrale della memoria. Qualcosa che scuote ma non porta mai via davvero nulla.»

Sul sedile posteriore Skippy si stira lentamente, si strofina gli occhi con le zampine e guarda fuori, ancora mezza persa.

Mi preparo all’atterraggio. Comincio la discesa verso Oristano-Fenosu. Tutto è stabile, i flap sono giù, la velocità perfetta. Poi, nel silenzio teso e concentrato dell’ultimo tratto si sente un suono basso, lungo…

Brrrrrooomp.

Non è il motore. È la pancia di Skippy. Scoppio a ridere. «Credo dovremmo fermarci urgentemente a fare colazione.»

La cabina esplode in una risata. Anche Gavina, vistosamente tesa durante l’atterraggio, ora si lascia andare.

Con un tocco leggero poso le ruote sulla pista. Il rumore del contatto con terra è lieve, come se il Cessna stesso stesse cercando di non disturbare l’attesa. Gavina si slaccia la cintura e si sporge leggermente in avanti. «È stato bellissimo volare con voi ragazzi. Grazie davvero per questa esperienza nuova per me. Ora vediamo se la mia vecchia collega si ricorda ancora di me… e soprattutto se vorrà davvero parlare e aiutarci.»

Mi giro verso di lei.

Gavina sorride ma nei suoi occhi si accende un lampo più serio, quasi impercettibile.

Un pensiero mi attraversa la mente, rapido come una turbolenza improvvisa: E se questa sua collega non volesse davvero aiutarci?

C’è un momento, tra l’ultimo flap e l’atterraggio, in cui anche la pancia racconta la verità.

Oristano durante la discesa vista dalla cabina (foto flight simulator 2024)