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Autore: SkyWander

12 – Diario di Viaggio Alghero

Alghero

La pioggia ci accoglie appena entriamo in città. Non è un acquazzone violento ma di quelli sottili, insistenti, che si infilano ovunque e ti obbligano ad abbassare lo sguardo, quasi a invitarti a camminare in silenzio.

Alghero ci appare sfocata, con i vicoli lucidi e le pietre che riflettono i lampioni come specchi opachi. I tetti rossi sembrano più scuri del solito, quasi bagnati anche nei ricordi e il cielo plumbeo, pesante, schiaccia ogni pensiero verso il basso.

Veronika cammina al mio fianco in silenzio. Skippy ci segue senza fiatare, lo sguardo fisso in avanti, le orecchie appena abbassate. Nessuno dei due ha fame, lo capisco dal modo in cui guardano o meglio, evitano le vetrine delle panetterie e i profumi che provano comunque a farsi strada tra le gocce.
«Prendiamoci almeno qualcosa di caldo» propongo, cercando di mantenere un tono più leggero, anche se lo sento forzato persino a me stesso.

Ci infiliamo sotto una piccola tettoia accanto a un forno che profuma di focaccia e cipolla, dove il calore si appiccica ai vetri appannati. Ordino qualcosa in fretta, senza nemmeno leggere tutto il menù, mentre loro si limitano a stringersi nel cappuccio.

Mangio io per tutti o almeno ci provo. Il boccone ha il sapore di una tregua ma solo a metà. L’aria resta sospesa, gonfia di aspettative e timori. È la stessa tensione che ci accompagna da ieri. Quella paura sottile che tutto possa ridursi a una suggestione, a un altro indizio che non porta da nessuna parte.

«Stai bene?» le chiedo a bassa voce, mentre appoggio il bicchiere ancora mezzo pieno su un barile usato come tavolino.

Lei annuisce ma non mi guarda. Poi si aggiusta la sciarpa e rompe il silenzio.
«È che… non so. Più ci avviciniamo a questa storia, più ho paura che si dissolva come nebbia. Ho bisogno che ci sia qualcosa, Camillo. Qualcosa di vero.»

Annuisco, anche se dentro di me il dubbio è lo stesso. È difficile ammetterlo ma la linea tra intuizione e illusione diventa ogni giorno più sottile.

«Anche se ci fosse solo una traccia, una persona che ha visto qualcosa, sarebbe già un passo avanti» dico. «Non abbiamo bisogno di risposte oggi. Solo di un segno.»

Veronika inspira profondamente e finalmente mi guarda. Nei suoi occhi vedo lo stesso miscuglio di paura e speranza che sento dentro di me.

Sotto i nostri piedi l’acciottolato bagnato ci riflette come ombre spezzate. Un bambino corre tra i vicoli ridendo sotto la pioggia, come se il mondo fuori fosse solo un dettaglio. E per un attimo penso a quanto sia diverso il nostro sguardo da quello dei bambini. Quanto il desiderio di capire possa diventare un peso.
Poi alzo gli occhi verso il cuore del centro storico, dove le case antiche si stringono l’una all’altra come a proteggersi dal vento. I balconi in ferro battuto, le persiane socchiuse, le tende leggere che danzano appena.

Alghero ci osserva. E oggi sembra volerci mettere alla prova.

A volte non cerchiamo risposte ma solo un segno che ci dica che non stiamo sbagliando strada.

Alghero Centro dall’alto (foto di torredelporticciolo.it)

Nel salotto del passato

La pioggia ci accompagna fino al portone di legno segnato dal tempo ma curato con attenzione. Ai lati, due piante in vaso. Il campanello antico risuona con un “drinn” secco, come quelli di un altro secolo. Poco dopo la porta si apre lentamente.

Gavina è lì, in piedi davanti a noi. Indossa un maglione in lana grezza e ha una sciarpa chiara poggiata sulle spalle. L’aspetto è semplice ma dignitoso. Gli occhi, più di ogni altra cosa, raccontano una vita passata a osservare e a studiare. Ci accoglie con un mezzo sorriso, quasi sorpresa dalla nostra puntualità.

«Entrate, per favore. Ho messo su qualcosa di caldo. Anche se oggi… ci vorrebbe il sole più del tè.»

L’appartamento è al primo piano, in una via tranquilla del centro storico. Odora di carta antica, di cera e di lavanda. Le pareti sono tappezzate di libri, fotografie in bianco e nero, e scaffali colmi di oggetti, molti dei quali probabilmente raccolti in anni di ricerche. Non è una casa… è un archivio che respira.

Skippy si ferma incantata davanti a una mensola ricolma di statuette e piccoli frammenti catalogati. Muove la testa a scatti, poi si siede composta accanto alla poltrona, con l’aria di chi ha capito che qui dentro c’è qualcosa di importante. Qualcosa di importante anche per lei, ora.

Dopo pochi convenevoli è Veronika a prendere la parola. Le mani intrecciate, lo sguardo fisso su Gavina.

«Abbiamo trovato un frammento di stoffa a Bonifacio, per caso» racconta. «Era nascosto in un vecchio manufatto con un doppio fondo, in un antiquario del borgo vecchio. A prima vista sembrava solo un tessuto antico ma aveva inciso sopra un simbolo… molto particolare.»

Fa una breve pausa, poi aggiunge:

«E se lo si guarda in controluce… compare una scritta. È in una lingua mista, forse antica. Dice: “…su tempus… nos eramus… su tempus… torneremos…”.»

Le sue parole restano sospese nell’aria per un istante, dense di significato.

«Non sappiamo cosa voglia dire con esattezza» continua. «Ma sembra qualcosa come: nel tempo eravamo, nel tempo torneremo. L’ho vista per caso. Solo alla luce giusta si riesce a leggere.»

Gavina solleva appena le sopracciglia ma non dice nulla. Segno di chi sa ascoltare prima di parlare. Veronika prosegue.

«Ho fatto delle ricerche online e ho trovato qualcosa di simile a Lu Brandali. Ci ha fatto pensare ai Giganti di Mont’e Prama o a qualcosa legato a loro. Ma poi, quando siamo arrivati lì… nulla combaciava. È stato un po’ scoraggiante. Ed è lì che un collega del sito ci ha parlato di lei. Ci ha detto che anni fa aveva condotto ricerche simili.»

Gavina resta in silenzio per un attimo, poi si alza. Skippy la segue con lo sguardo mentre cammina fino a una piccola scrivania e apre un cassetto. Torna con una cartellina consumata dal tempo e si siede con lentezza. Quando inizia a parlare, la voce è calma ma porta con sé un peso silenzioso.

«Non siete i primi a seguire una traccia che sembra dissolversi all’improvviso. E non sarete gli ultimi. Ma vi dirò qualcosa… anch’io, tanti anni fa, mi sono trovata nello stesso punto. Stessa tensione, la stessa sensazione di essere a un passo da qualcosa… eppure continuamente spinta via.»

Apre la cartellina e ci mostra una vecchia fotografia: una pietra incisa, i simboli appena visibili, scolpiti con precisione incerta.

«Questa l’ho trovata vicino a Paulilatino, in un deposito mai catalogato ufficialmente. Doveva essere trasportata a Cagliari per essere studiata ma… sparì. Come tante altre cose.»

Abbassa lo sguardo per un momento, come se stesse rivedendo tutto con gli occhi della memoria.

«Ogni volta che facevo una domanda i colleghi mi guardavano storto. I fondi sparivano. Le collaborazioni si interrompevano. Una volta, un progetto che avevamo costruito per anni venne bloccato senza spiegazioni. E sai cosa mi dissero? “Forse è meglio concentrarsi su argomenti meno… speculativi.”»

Accende una lampada da tavolo e la luce calda si posa sulle sue mani.

«Speculativi… come se la storia potesse essere solo quella già scritta.»

Veronika la ascolta in silenzio. Io incrocio le braccia, sentendo in quelle parole qualcosa di familiare. Quel senso di ostacolo sottile, mai dichiarato apertamente, ma sempre presente.

«Non ho mai avuto la certezza che ci fosse una volontà precisa dietro tutto questo. Ma troppe volte, proprio quando stavo per fare un passo avanti, accadeva qualcosa che mi riportava indietro. Come se qualcuno o qualcosa volesse che certi dettagli restassero sepolti.»

Skippy alza un orecchio, incuriosita. Gavina la nota e sorride.

«Tu lo capisci, vero, piccola? Anche gli animali sentono quando il silenzio pesa più del rumore.»

Poi si volta verso di noi.

«Fatemi vedere questa stoffa.»

Veronika apre lo zaino con attenzione e le porge il frammento. Gavina lo prende tra le mani, lo osserva per lunghi istanti, lo inclina verso la finestra per vedere meglio le scritte in controluce. Poi annuisce, come se avesse ritrovato un vecchio amico.

«È bisso marino» dice a voce bassa, quasi con rispetto.

«Cosa?» chiedo, sorpreso.

Lei non risponde subito. Continua a fissare il tessuto, poi inizia a spiegare con calma, quasi parlasse a sé stessa.

«È fatto con i filamenti di un mollusco… la pinna nobilis, una grande conchiglia che viveva nei fondali sabbiosi del Mar Mediterraneo. Pochissimi sapevano farlo.»

«Con… un mollusco?» chiedo, ancora più sorpreso.

Ma lei non mi risponde. Troppo intenta ormai a valutare quella stoffa, come se cercasse qualcosa che non ci aveva ancora detto. Alza lo sguardo e i suoi occhi brillano appena, non per l’emozione ma per la concentrazione. Poi, senza preavviso, cambia tono.

«Venite. C’è qualcosa che voglio mostrarvi.»

Ci sono storie che restano nascoste finché qualcuno non osa chiederle.

Gavina (foto Leonardo.ai)

Tracce nascoste

Ci guida in una stanza più piccola, forse il suo studio. Alle pareti mappe antiche appese con puntine d’ottone e una serie di fotografie in bianco e nero, alcune ingiallite, altre recenti. Un piccolo scrittoio è ricoperto di carte, taccuini, vecchie schede manoscritte.

Apre con cautela un cassetto e ne estrae una scatola piatta, di cartone spesso, consumata ai bordi. Ne tira fuori alcune fotocopie, poi qualche ritaglio di giornale e infine una serie di lucidi trasparenti con tracciati di simboli a confronto.

«Negli anni ho raccolto più di quanto riuscissi a spiegare. Simboli, incisioni, frammenti. Molti erano stati archiviati male, dimenticati o etichettati come “decorazioni rituali di epoca imprecisata”. Ma alcuni… alcuni erano troppo simili tra loro per essere solo decorazioni.»

Sfoglia i lucidi, li sovrappone, li confronta con gesti metodici.

«Guardate questo» dice, mostrandoci un disegno tratto da una stele vicino a Tharros. «E ora questo». lo sovrappone a un altro simbolo inciso su un piccolo oggetto rinvenuto a Ittiri, nella Sardegna nord-occidentale.
«Non identici. Ma… coerenti. Come se parlassero una stessa lingua dimenticata.»

Veronika si avvicina, attratta come da un magnete. Io osservo in silenzio, lasciando che siano loro due a connettere i fili.

«Tra le annotazioni più strane ce n’era una che tornava spesso. Una definizione vaga, sempre scritta in margine: “Il gran maestro” oppure semplicemente “Amsk’r”. Una forma corrotta, incompleta, che nessuno sembrava più in grado di decifrare.»

Gavina apre un quaderno logoro, scritto a mano, fitte annotazioni in corsivo elegante.

«Questo me lo passò un collega di Cagliari. Disse che era una raccolta di appunti su simboli non classificati. Ma guardate qui» indica una pagina con una nota ‘simbolo simile a frammento ligneo trovato a Tharros – possibile collegamento con Amsk’r – vedi nota 1972.’

Veronika si sporge. «E lei è riuscita a collegarlo a un nome vero?»

Gavina annuisce ma con prudenza.

«Ci ho messo anni. Ma un giorno, durante un convegno a Sassari, un ricercatore più anziano mi mostrò un documento trascritto da una fonte punica. Parlava di un “capo della rivolta” chiamato Ampsicora… e a margine, in una nota manoscritta, qualcuno aveva scritto: “Amsk’r?” col punto interrogativo. Per me fu come una scintilla. Quella sigla che avevo letto ovunque… combaciava. Non era una coincidenza.»

Fa una pausa. Lo sguardo si fa più severo.

«Da allora, ogni volta che provavo ad approfondire… qualcosa si metteva di traverso. Reperti spostati. Accessi negati. Progetti che venivano tagliati senza spiegazioni. Come se quel nome, quel vero nome, non dovesse riemergere.»

Alcuni nomi non spariscono: aspettano solo che qualcuno li riconosca.

documenti di Gavina (foto Dall-E)

Una lingua nascosta

Gavina si siede accanto alla scrivania e resta in silenzio per un attimo. Poi prende un foglio stropicciato da un raccoglitore aperto, lo osserva per qualche secondo e parla con voce più bassa, come se stesse per raccontare qualcosa che finora aveva tenuto solo per sé.

«C’è una cosa che non ho mai scritto in nessuna relazione. Né detto apertamente, nemmeno ai colleghi più vicini. Ma dopo quello che mi avete raccontato…»

Ci guarda, uno per uno, in cerca di una conferma silenziosa. Veronika annuisce attendendo una rivelazione. Io resto fermo ma il mio sguardo le dice che può andare avanti.

«Una volta, anni fa, mi permisero di accedere a un piccolo deposito vicino a Tharros. Non c’erano grandi reperti, solo materiale che nessuno aveva ancora avuto tempo o interesse di studiare. Tra quei resti c’era una lastra, poco più grande di un foglio A4, con un’incisione particolare.»

Si interrompe, come se stesse ancora visualizzando quella lastra nella mente.

«Sembrava una decorazione. Ma c’era qualcosa nella ripetizione di certe forme, nella posizione degli elementi. Non era arte casuale. Era ordine.»

Veronika si sporge leggermente. «Come un codice?»

Gavina annuisce, con un’espressione quasi colpevole.

«Sì. Non ne ho mai parlato con nessuno ma ho iniziato a confrontare quei segni con altri trovati in contesti completamente diversi: piccole incisioni sui bordi di ceramiche, schegge di legno intagliate, persino segni lasciati su un’ansa metallica di origine incerta. Non erano identici ma… sembravano seguire una logica, un modulo ricorrente.»

Apre un fascicolo e ci mostra un tracciato a mano: simboli schematizzati, frecce, linee tratteggiate, connessioni come se stessimo guardando una mappa invisibile.

«Alla fine ho iniziato a pensare che non fossero solo simboli religiosi o decorativi. Ho iniziato a credere che fossero una lingua. Una lingua segreta, nata in epoca nuragica o subito dopo… e usata per trasmettere messaggi solo a chi era in grado di leggerli.»

Il peso delle sue parole riempie la stanza. Non ha detto nulla di “clamoroso” in superficie ma il sottotesto è potente: qualcuno ha lasciato volontariamente una traccia, un codice. E nessuno, finora, è riuscito a leggerlo per davvero.

Gavina ci guarda di nuovo. «Forse erano solo suggestioni. O forse ho voluto vedere un disegno dove c’erano solo coincidenze. Ma… c’è una cosa che non riesco a dimenticare.»

Si alza e prende una fotografia sbiadita da una scatola. Ce la porge. Mostra una piccola pietra ovale, trovata, ci dice, nei pressi di un vecchio insediamento punico.
Al centro un simbolo incastonato in un anello di linee concentriche. In basso, quasi impercettibile, una lettera incisa al contrario. La stessa che avevamo notato anche noi sul tessuto ma senza sapere cosa fosse.

«Questo» sussurra «è comparso almeno tre volte. Sempre in luoghi marginali, lontani dai reperti ufficiali. E ogni volta… associato a resti che non avevano mai trovato una collocazione precisa.»

Si volta verso la finestra poi, a bassa voce, quasi parlando a sé stessa, aggiunge:
«Se avessero voluto nascondere un messaggio nei secoli… lo avrebbero fatto così. Non in un unico segno. Ma spargendo pezzi incompleti ovunque. Lasciando a chi viene dopo il compito di rimetterli insieme.»

Chi vuole davvero trasmettere un messaggio non lascia una verità intera. Lascia frammenti da ricomporre.

antico nuraghe in sardegna (foto sardegnaturismo.it)

Una pista ancora aperta

Gavina resta in silenzio per qualche secondo, poi si alza e torna a sfogliare alcune carte accatastate sul mobile accanto. Non sembra cercare qualcosa in particolare. Sembra piuttosto ritrovare un ricordo.

«Sapete… non è del tutto vero che non ho più messo mano a queste ricerche. Alcune cose le ho solo messe… in pausa. Per anni.»

Prende un taccuino, lo apre a metà, poi lo richiude.

«C’è una persona. Una mia ex collaboratrice. All’epoca era giovane, piena di entusiasmo. Lavorava con me quando iniziai a mettere insieme i primi confronti tra quei simboli. Era brillante, curiosa. Poi, per motivi personali, decise di lasciare la ricerca accademica

Fa una pausa e ci guarda, come per misurare le nostre reazioni.

«Ora dirige un museo nella zona di Cabras. Un luogo apparentemente fuori dal tempo. E so per certo che tra le collezioni che conserva… ci sono almeno due reperti che non sono mai stati esposti al pubblico.»

Veronika si raddrizza. «Reperti come quelli che ha studiato lei?»

Gavina annuisce. «Sì. Uno in particolare… me lo mostrò anni fa, in privato. Era uno di quei frammenti anonimi che nessuno voleva più studiare ma io vidi subito che portava un’incisione familiare. Le dissi di conservarlo, di non lasciarlo finire in magazzino. E lei lo fece.»

Si volta verso la finestra, dove la pioggia continua a scorrere lenta lungo il vetro.
Poi torna a guardarci.

«Non le ho mai chiesto nulla in cambio. Ma… mi deve un favore. Uno importante. E se ci presentassimo lì all’improvviso, con me al vostro fianco… non potrà dirci di no.»

Veronika sorride. Io incrocio le braccia. Gavina ha già deciso e, a questo punto, anche noi.

Skippy, come se avesse capito tutto, salta leggera giù dal tappeto e si dirige verso la porta, pronta a ripartire.

A volte le risposte non stanno nei documenti ma nelle persone che li hanno custoditi in silenzio.

documenti di Gavina (foto Dall-E)

Sapori che Raccontano

Quando usciamo dallo studio, il cielo è diventato più scuro. La pioggia ha rallentato ma l’aria è ancora satura di umidità. Ci accorgiamo che il pomeriggio è volato via, le parole, le immagini, le connessioni ci hanno rapiti più di quanto pensassimo.

Veronika si volta verso Gavina con un sorriso che ha il sapore della gratitudine.

«Le va di venire a cena con noi? È il minimo dopo tutto quello che ha condiviso. E poi… finalmente ho fame.»

Skippy, come se fosse stata nominata, si scuote e inizia a saltellare intorno a noi. L’appetito è tornato anche per lei e il suo sguardo è quello di chi ha già deciso cosa vuole ordinare, anche se non ha ancora letto il menù.

Gavina ci guarda per un istante, sorpresa. Poi annuisce, quasi commossa da un gesto semplice che non si aspettava.

«Sì… sì, volentieri. Allora vi porto in un posto che conosco io. Niente menù turistici, promesso.»

Poco dopo siamo seduti in una piccola trattoria nascosta tra i vicoli del centro. L’ambiente è caldo, il legno scuro alle pareti contrasta con le luci basse e il profumo nell’aria è una miscela perfetta di spezie, mare e terra.

«Qui fanno uno dei miei piatti preferiti» dice Gavina, sfogliando appena il menù per abitudine, più che per necessità. «Si chiama fregula cun cocciula. È una pasta di semola tipica, piccola, tostata al forno, servita con vongole freschissime e prezzemolo. Semplice… ma se è fatta bene, non la dimentichi più.»

Veronika sorride e si affida ciecamente al consiglio. Io annuisco, curioso.
Skippy, già seduta composta tra me e Veronika, si stropiccia le mani con entusiasmo. Mangia come noi in proporzioni più ridotte e, a giudicare dal modo in cui osserva la cucina, ha già eletto il profumo della fregula come il più buono della giornata.

Quando i piatti arrivano i profumi sono così intensi che per un attimo parliamo poco. Il silenzio si riempie di forchette che sfiorano i piatti e sguardi d’intesa.

Poi, mentre assaporo l’ultimo boccone, mi ricordo di quella domanda rimasta in sospeso.

«Prima ha detto che il tessuto è bisso marino…» mi volto verso Gavina. «Ma non ha finito di spiegare. È davvero fatto con… un mollusco?»

Gavina solleva gli occhi, poi sorride e poggia la forchetta sul bordo del piatto.

«Sì, scusa se ti ho lasciato a metà. Ero troppo presa dai vostri racconti.»

Poi si sistema la sciarpa, quasi a prendersi un momento per trovare le parole giuste.

«Il bisso marino si ricava dai filamenti della pinna nobilis, un mollusco enorme che viveva nel Mediterraneo. Per secoli alcune donne, pochissime in verità, hanno saputo come estrarne quei filamenti, lavarli, filarli a mano, uno per uno. Il risultato è un tessuto leggerissimo, dorato alla luce, che non si deteriora con il tempo. Era usato solo per i paramenti sacri o i vestiti dei re. Cose che non dovevano morire.»

Si ferma un istante.

«In Sardegna c’erano pochissime donne in grado di lavorarlo e ancora meno sono rimaste. Oggi è quasi scomparso. Ecco perché, quando ho visto il vostro frammento… mi si è fermato il respiro. Non si trattava solo di un pezzo raro ma di qualcosa che qualcuno ha voluto proteggere in un modo speciale. Come se il contenuto non dovesse mai essere dimenticato.»

La sua voce si fa più bassa.

«E anche solo per questo… vale la pena continuare a cercare.»

Veronika la guarda in silenzio. Io mi appoggio allo schienale della sedia.
Skippy, con la pancia piena e l’espressione soddisfatta, si avvolge il tovagliolo tra le mani come se fosse una sciarpa e si lascia andare contro la spalliera, occhi chiusi, come a dire: possiamo anche non muoverci più da qui.

È tardi. Eppure nessuno sembra avere fretta.

Ci sono sapori che nutrono il corpo e storie che nutrono il perché.

Fregula cun Cocciula (foto e ricetta Dall-E)

Un regalo prima di dormire

Quando rientriamo a casa di Gavina l’aria sa di terra bagnata e pietra antica. Alghero sembra essersi acquietata, avvolta in un silenzio che non è solo serale ma quasi cerimoniale.

Stiamo per salutare quando Gavina alza una mano, decisa: «Nessuna discussione. Dormite qui. Partiamo presto domattina e non vi lascio certo vagare per la città in cerca di un posto dove dormire. Qui c’è spazio e per stanotte… siete di casa.»

Veronika la ringrazia con un sorriso gentile. Io accenno un piccolo inchino di resa. Skippy, dal canto suo, è già crollata su un tappeto accanto al divano, le braccia dietro la testa e lo sguardo fisso al soffitto, come se fosse arrivata alla fine di un film che le è piaciuto tantissimo.

Poco prima di andare a dormire Gavina si allontana per qualche minuto, poi torna con un piccolo cofanetto di legno scolpito. Lo apre con cura davanti a Skippy e le porge un oggetto avvolto in un pezzo di lino.

«È un bottone in osso. L’ho trovato anni fa durante uno scavo nei dintorni di Alghero. Non è mai stato registrato, era in mezzo a frammenti senza catalogo ma porta un’incisione molto antica. Alcuni pensano sia una semplice decorazione… io non ne sono mai stata così sicura.»

Skippy lo prende tra le mani con delicatezza. Sul fronte, un piccolo segno curvo a spirale inciso a mano. Lo osserva, poi lo infila subito nella sua taschina laterale, dove tiene le cose importanti. Poi si gira verso Gavina, le prende una mano e l’accarezza con il naso, in quel suo modo silenzioso e dolce che ha solo lei.

«Custodiscilo» le dice Gavina. «Forse un giorno ci servirà.»

Poco dopo, ci sistemiamo per la notte. Gavina ci ha preparato una stanza con un letto comodo, lenzuola profumate e un plaid piegato con cura ai piedi del materasso.
Skippy, come sempre, si rannicchia a terra accanto a noi, avvolta nella sua coperta, la testa appoggiata sullo zaino come fosse un cuscino di casa.

Io e Veronika ci infiliamo sotto le coperte in silenzio.

Per un po’, nessuno dice niente.

Poi Veronika si gira verso di me, la voce bassa, quasi un sussurro.
«Secondo te… troveremo davvero qualcosa?»

La guardo nel buio. Le ombre delle tapparelle si muovono lente sul soffitto, disegnando figure che sembrano danzare.

«Non lo so» le rispondo a bassa voce. «Ma se anche non trovassimo nulla… la storia, in qualche modo, ci ha già trovato.»

Lei sorride. Chiude gli occhi, senza dire altro.

Io resto ancora un attimo sveglio, mentre il respiro di Skippy si fa regolare e il profumo del legno e dei libri antichi ci avvolge.

Domani si riparte ma stanotte dormiamo sotto lo stesso tetto della storia.

A volte non è importante trovare qualcosa. È sentirsi trovati da ciò che cercavi

il piccolo souvenir di Skippy (foto Dall-E)

12 + Diario di Volo Santa Teresa Alghero

Un Triste Risveglio

La luce filtra tra le tende della stanza quando Veronika apre gli occhi. La sento girarsi, afferrare il tablet, scorrere lo schermo con un dito. La sento sbuffare e non dire nulla. Nessuna notifica. Nessuna risposta.
Mi giro verso di lei e la guardo. Dal modo in cui lo sguardo le si perde nel vuoto capisco che la speranza della sera prima sta già svanendo.

Skippy, rannicchiata accanto a lei, apre un occhio e poi si rigira lentamente, avvolgendosi nella coda. Niente saltelli. Niente entusiasmo nemmeno per lei. Solo quel silenzio che non è mai un buon segno.
Provo a spezzare l’atmosfera con il tono più leggero che riesco a trovare:

«Io direi… colazione e poi volo. Olbia, giusto?»

Veronika annuisce, forzando un mezzo sorriso.

«Giusto…» sussurra, anche se il suo sguardo resta incollato allo schermo spento.

Poco dopo passeggiamo tra le vie ancora assonnate di Santa Teresa Gallura. L’aria è limpida, il sole è già alto ma il vento conserva ancora un tocco fresco. Ci sediamo in un bar affacciato sulla piazzetta. Il barista ci consiglia le formaggelle, dolci di ricotta e scorza di limone appena sfornati. Tre porzioni abbondanti arrivano fumanti al tavolo, con lo zucchero a velo che brilla alla luce del mattino.

Assaporo la loro morbidezza che si scioglie in bocca, poi porto lentamente il caffè alle labbra. La mente inizia a mettersi in moto: è il momento di concentrarsi sul piano di volo per Olbia.

Apro il tablet e comincio a visualizzare la rotta. Il meteo sembra stabile anche se, con queste nuvole basse, potremmo avere qualche problema di visibilità.

Skippy ha lo sguardo basso. Tiene tra le zampette un pezzetto di dolce ma non lo morde. Sembra più un pensiero che un boccone.

Poi, all’improvviso…

Bip.

Veronika scatta, riattiva il tablet. Il messaggio è breve ma abbastanza da farle brillare gli occhi.

«Mi ha risposto.» La voce le trema un po’.

Alzo lo sguardo, lasciando perdere il piano di volo. «Gavina

Veronika annuisce, l’emozione che riaffiora nei suoi occhi. «Dice che le farebbe davvero piacere incontrarci, parlare del simbolo, della stoffa, di tutto… ma ora vive ad Alghero

La fisso per un istante. Poi sorrido. «E allora… andiamo ad Alghero.»

Skippy mi guarda, poi emette un suono quasi felice e mi salta in braccio stringendomi forte. Veronika si passa una mano tra i capelli, incredula, poi ride. Di cuore.

«Le rispondo subito» dice, già digitando. «Vediamo se ci può ricevere nel pomeriggio.»

Io riapro il mio tablet ma non più per tracciare la rotta verso Olbia.

Ora si cambia destinazione. E con essa, anche l’umore.

Skippy mi lancia un’occhiata piena di gratitudine mentre addenta con gioia il suo pezzo di formaggella con un appetito finalmente ritrovato. E Veronika… be’, Veronika ha di nuovo quella scintilla negli occhi.

Il cielo sopra la Gallura è sereno. E adesso lo siamo anche noi.

A volte basta un messaggio per cambiare la rotta di un’intera giornata.

In decollo dal Campo Volo in erba (foto flight simulator 2024)

Castelsardo

Poco dopo raggiungiamo il campo volo a sud di Santa Teresa di Gallura dove il Cessna ci aspetta, lucido sotto il sole del mattino. Dopo i controlli di rito porto l’aereo sulla piccola pista erbosa. Spingo la manetta in avanti, le ruote scorrono sull’erba… e in pochi secondi siamo di nuovo in aria.
Il cielo è ancora coperto a tratti da nubi basse ma la visibilità è sufficiente per godersi il panorama. Seguendo la costa verso sud-ovest, ci lasciamo alle spalle Santa Teresa e voliamo sopra un tratto di litorale aspro e frastagliato, dove la vegetazione si aggrappa con ostinazione alle rocce.
Poi, come scolpita nel paesaggio, appare Castelsardo.

Vista dall’alto è impressionante: un intreccio di case colorate arrampicate su un promontorio di origine vulcanica che si getta a picco sul mare. Le rocce scure e irregolari sembrano fondersi con le mura del borgo, mentre la fortezza in cima domina tutto con l’eleganza austera di un guardiano antico.
«Wow…» mormoro, rallentando per poterla osservare meglio.

Veronika alza lo sguardo dalla guida, sorpresa anche lei da quella vista così scenografica. «Sembra uscita da una leggenda» dice.

Sorvoliamo lentamente il borgo, compiendo un paio di virate leggere per godercelo da più angolazioni. Il piccolo porto sotto di noi sembra un rifugio nascosto, incastonato in un’insenatura protetta. Le viuzze si arrampicano a spirale verso il castello, che da quassù appare come il cuore pulsante del borgo.
Veronika sfoglia qualche pagina della guida, poi sorride. «Sai che sotto il castello, secondo una leggenda, esiste un passaggio segreto?»

«Passaggio segreto?» chiedo, senza distogliere gli occhi dal panorama.

«Si dice che conduca a delle stanze sotterranee dove i Doria, quelli che fondarono la città nel 1102, avrebbero nascosto un tesoro.»

Veronika scatta ancora qualche foto, poi resta in silenzio, lo sguardo perso oltre il finestrino, là dove la costa si confonde con il mare.
«Chissà se anche noi troveremo quello che stiamo cercando…» mormora, più a se stessa che a me.
Non rispondo. Punto semplicemente il muso verso l’orizzonte coperto dalle nuvole, lasciando che Castelsardo scivoli alle nostre spalle.

Alcuni luoghi sembrano costruiti per custodire segreti. Altri, per risvegliarli.

Castelsardo (foto flightsimulator 2024)

Asinara

La traversata del golfo si rivela abbastanza impegnativa. Le nuvole basse, sempre più fitte, iniziano davvero a darmi qualche problema. In breve tempo la visibilità si riduce drasticamente e mi vedo costretto a mantenere la rotta e l’altitudine affidandomi quasi esclusivamente alla strumentazione del Cessna. Non è una situazione preoccupante tuttavia richiede attenzione extra e concentrazione costante.
Accanto a me, Veronika sospira appena, delusa di non poter godere della vista del mare. Decide così di approfittarne per approfondire sulla guida ciò che ci aspetta durante il sorvolo dell’Asinara.

«Sai, Cami, l’Asinara ha una storia incredibile» mi dice alzando appena gli occhi dal libro. «Per oltre un secolo è stata chiusa al pubblico, prima come colonia penale agricola e poi, dagli anni ’70, come carcere di massima sicurezza. È qui che vennero rinchiusi alcuni dei criminali più pericolosi d’Italia, tra cui boss mafiosi e terroristi delle Brigate Rosse. Solo dal 1997 è diventata Parco Nazionale e finalmente aperta ai visitatori.»

Ascolto incuriosito mentre le nuvole iniziano lentamente a diradarsi, permettendomi di intravedere le prime sagome della costa in corrispondenza di Cala d’Oliva, l’unico borgo abitato dell’isola. Veronika prosegue con entusiasmo:
«L’isola è famosa anche per gli asinelli bianchi, una specie rara e molto particolare che vive solo qui. Nessuno sa con certezza come siano arrivati sull’isola, alcuni dicono siano stati importati dall’Egitto nel 1800, altri sostengono invece che siano il risultato di una mutazione genetica locale.»

Getto un’occhiata a Skippy. È immobile, le orecchie basse, gli occhi fissi al finestrino. Ma si capisce che non sta davvero guardando. Approfittando di un momento di relativa calma del volo, allungo una mano per accarezzarle delicatamente la testa. Skippy solleva lentamente lo sguardo verso di me, fissandomi con occhi che mi sembrano più grandi e malinconici del solito. Si lascia accarezzare, appoggiando lievemente la testa sul palmo della mia mano, come a cercare conforto.

Veronika osserva la scena, intuisce la situazione e le sorride dolcemente, aprendo leggermente le braccia: «Vieni qui, Skippy. Non pensare più a ieri, andrà tutto bene oggi, vedrai.»

Skippy si volta verso Veronika, la guarda per qualche secondo con una certa esitazione, poi lentamente si avvicina, lasciandosi avvolgere dal suo abbraccio rassicurante. Veronika le passa affettuosamente la mano sulla schiena, sussurrandole con voce dolce: «Niente paura, Skippy. Oggi è un nuovo giorno. E qualunque cosa accada… ci sarò io a starti accanto. Sempre.»

Sento una piacevole stretta al cuore mentre osservo la scena, sentendomi sollevato nel vedere che Skippy finalmente si rilassa un po’.

Davanti a noi, in lontananza, inizia già a delinearsi il profilo di Stintino, ma per ora lasciamo ancora spazio a questo breve momento di conforto e calore.

Anche nei cieli più grigi, il calore di un gesto sincero può cambiare la rotta del cuore.

Asinara (foto flight simulator 2024)

La Pelosa e Stintino

Le nuvole si diradano lasciando spazio al sole che illumina il paesaggio dell’arcipelago dell’Asinara che scorre sotto di noi. La splendida spiaggia di La Pelosa, con il suo mare cristallino e la sabbia bianca e finissima che sembra quasi irreale, colpisce gli occhi.
Rallento leggermente il Cessna per permettere a Veronika di godersi appieno il panorama e scattare qualche foto. Lei cerca di coinvolgere Skippy e distrarla un pò.
«Skippy, sai perché questa spiaggia si chiama La Pelosa?» chiede con voce dolce. Skippy alza la testa, curiosa. «C’è scritto che il nome deriva dalla presenza di una vegetazione molto particolare, una specie di alga marina chiamata Posidonia oceanica, che in certi periodi si accumula sulla riva creando una sorta di tappeto morbido e filamentoso. Per questo motivo, vista da lontano, la spiaggia sembra quasi avere una peluria.»
Skippy sembra interessata, le orecchie leggermente sollevate e lo sguardo più attento. Veronika continua: «È considerata una delle spiagge più belle d’Europa. Lì davanti c’è anche una piccola torre aragonese) del XVI secolo, costruita per difendere la costa dalle invasioni dei pirati, che aggiunge mistero e fascino a questo tratto di costa.»
Mentre Veronika racconta mi accorgo che Skippy sembra finalmente distendersi leggermente, forse rasserenata dall’affetto e dall’entusiasmo contagioso di Veronika.
Dopo aver lasciato che lo sguardo si perdesse ancora un po’ nella bellezza del luogo, riallineo il Cessna verso sud. Sorvoliamo Stintino, osservando il piccolo borgo di pescatori che sembra proteso delicatamente sul mare.
«Sai Skippy, Stintino è famoso anche per essere la capitale sarda della vela latina, un’antica imbarcazione tradizionale», aggiunge Veronika, «e il suo nome curioso deriva dal sassarese “istintìnu”, che significa intestino o budello, proprio per la forma allungata e stretta della penisola dove sorge.»
Guardo fuori. L’acqua laggiù sembra dipinta. C’è una bellezza così perfetta da sembrare irreale, e per un attimo mi sorprendo a pensare quanto sia incredibile poter vedere il mondo così, da lassù.
Skippy si sporge leggermente verso il finestrino, come ipnotizzata. Le sue orecchie si muovono appena, mentre resta immobile, in silenzio.
Forse non sta solo ascoltando Veronika. Forse anche lei sente, dentro di sé, che stiamo volando verso qualcosa che conta davvero.

Ci sono luoghi che non si dimenticano e silenzi che dicono tutto

La Pelosa (foto flight simulator 2024)

Porto Torres

L’imponente struttura portuale di Porto Torres cattura immediatamente la nostra attenzione mentre ci avviciniamo. Dall’alto osserviamo la zona industriale, con le infrastrutture che testimoniano l’importanza strategica di questo snodo marittimo nel panorama sardo. Enormi silos si stagliano all’orizzonte come sentinelle moderne, silenziose, che custodiscono cereali e mangimi destinati ai mercati di mezza Europa.
Il contrasto con la cittadina è evidente: il grande porto commerciale lascia spazio al pittoresco porticciolo turistico, dove le barche dei pescatori e le imbarcazioni da diporto riposano placidamente.

Veronika mi racconta una curiosità: «Porto Torres è stato un importante centro romano, noto come Turris Libisonis. Oggi possiamo ancora ammirare resti archeologici significativi, come il Ponte Romano sul fiume Mannu e le terme.»

Sorvolando l’area, non posso fare a meno di chiedermi quanti strati di storia si siano sovrapposti qui, invisibili agli occhi. Dai romani ai nuragici, quante tracce dimenticate giacciono ancora sotto terra? E se fossero proprio queste zone, apparentemente secondarie, a custodire i frammenti mancanti della nostra ricerca?

Mi chiedo se Gavina, con la sua esperienza e i suoi studi, riuscirà ad aiutarci a distinguere quei segni antichi dalle ombre che il tempo ha lasciato.

Mentre il porto resta alle nostre spalle, mi accorgo che la tensione silenziosa di stamattina è tornata.

Lo sento anche io: quell’appuntamento del pomeriggio, quell’incontro con Gavina… potrebbe cambiare tutto. O forse… non cambierà niente. Ma ormai siamo troppo avanti per voltarci.

La storia non si mostra sempre in superficie. A volte va cercata sotto strati di tempo e silenzio.

Porto Torres (foto flight simulator 2024)

Sassari

Il paesaggio sotto di noi cambia ancora: le coste si fanno lontane e, al loro posto, si distendono dolci colline e distese verdi che annunciano l’entroterra sardo. In lontananza compare Sassari, distesa tra il verde e la pietra.

«Guarda laggiù» dico a Veronika, indicando un rettangolo verde che spicca nel cuore della città. «Quel grande parco al centro…»

Veronika consulta rapidamente la sua guida. «È il Parco di Monserrato, il più grande della città. Ci sono giardini all’italiana, all’inglese e una varietà di piante notevole. Un tempo era parte di una villa nobiliare.»
Sorvoliamo lentamente la zona. Sassari vista dall’alto ha un’armonia tutta sua: i tetti rossi, le strade che si intrecciano, il centro storico che pulsa ancora di storia. Veronika alza gli occhi dal tablet, lo sguardo acceso.

«Lo sai che Sassari fu capitale del Giudicato di Torres? E poi diventò una repubblica indipendente… una delle poche della Sardegna. Oggi è la seconda città dell’isola, sede universitaria e arcivescovile.»
Skippy, con le orecchie dritte e il naso incollato al finestrino, segue il volo con più attenzione. Forse anche lei sente che ci stiamo avvicinando.

«Lì sotto» riprende Veronika, indicando una zona poco più in là, «ci sono i resti del Castello di Sassari. Era una fortezza trapezoidale, con cinque torri agli angoli. Serviva a difendere la città ma oggi ne restano solo alcune sezioni incorporate negli edifici moderni.»

Sorvolando la zona della vecchia valle del Rosello, Veronika aggiunge ancora: «E quella è la fontana di Rosello. Una delle più famose dell’isola, costruita da maestranze genovesi nel Seicento. È considerata uno dei simboli della città.»

Mi godo il racconto mentre osservo il profilo urbano scivolare sotto di noi ma il pensiero va altrove. Ogni città ha le sue storie, le sue leggende, le sue verità sepolte.

E noi… stiamo volando verso una donna che potrebbe aiutarci a dare un senso alla nostra.

Ogni città custodisce segreti: sta a noi decidere quali ascoltare.

Sassari (foto flight simulator 2024)

Alghero

Le nuvole finalmente si sono diradate, regalandoci una vista spettacolare sulla costa che lentamente ci conduce verso Alghero. La città si rivela a poco a poco sotto di noi, adagiata elegantemente sulla costa nord-occidentale della Sardegna.

«Sai, Cami» comincia Veronika con il suo solito tono curioso «Alghero è soprannominata la “Barceloneta sarda”, perché conserva ancora oggi tantissime tradizioni catalane

«Catalane?» rispondo sorpreso, mentre inclino leggermente il Cessna per osservare meglio le mura e i bastioni che circondano il centro storico.

«Sì, il catalano è rimasto nella cultura locale, nell’architettura e persino nella lingua. Qui infatti si parla ancora un dialetto catalano, l’algherese, tramandato dai tempi della dominazione aragonese nel XIV secolo. Se scendiamo in città, potremmo sentirlo ancora nelle stradine.»

Skippy drizza le orecchie incuriosita e Veronika sorride: «Magari impareremo qualche parola insieme!»
Ridiamo entrambi, notando che Skippy sembra finalmente rilassata e di buon umore.

Sorvoliamo il porto turistico, con le sue barche allineate in perfetto ordine, mentre lo sguardo di Veronika si fa pensieroso.

Poi, mentre ci avviciniamo alla città vecchia, abbassa lo sguardo e mormora tra sé, quasi in un pensiero ad alta voce:
«Chissà dove vive, Gavina… e perché ha deciso di trasferirsi qui. Forse anche lei cercava qualcosa…»
Resto in silenzio. Il suo sguardo è fisso là sotto, tra le case e le stradine. Non aggiunge altro ma so che quel pensiero le è rimasto dentro.

Ci allontaniamo lentamente dalla città, dirigendoci verso il promontorio di Capo Caccia. Davanti a noi si staglia imponente la scogliera bianca, sulla cui sommità svetta il faro di Capo Caccia che sembra dominare con eleganza tutto l’orizzonte.

«Guarda che meraviglia quel faro!» esclamo incantato, iniziando a volteggiare attorno alla falesia.
«È stato costruito nel 1864» mi racconta Veronika con la guida aperta sulle gambe, «ed è considerato uno dei fari più alti d’Italia. La sua luce è visibile fino a 24 miglia nautiche di distanza… cioè circa 44 km.»
Sorvolando la parete della falesia, individuiamo chiaramente una lunga scalinata che si aggrappa alla roccia.

«Quella è l’Escala del Cabirol» dice Veronika indicando verso il basso, «una scala scavata direttamente nella parete della falesia: 654 gradini che portano fino all’ingresso delle Grotte di Nettuno. Un complesso spettacolare di grotte marine, tra le più grandi d’Italia.»

«654 gradini?» esclamo sorridendo. «Forse è meglio ammirarle da qui. Non so se Skippy sarebbe d’accordo a farsi trasportare su e giù.»

Lei ridacchia: «In effetti meglio così, se non vogliamo rischiare di portarla in braccio per tutto il tragitto!»

Skippy sbuffa teatralmente fingendo indignazione ma è chiaro che si sta divertendo.

«Lo è sicuramente» aggiunge Veronika mentre osserva le acque sottostanti, «questa zona è famosa anche per la biodiversità marina. Chissà che spettacolo dev’essere al tramonto.»

«Dobbiamo tornarci assolutamente, magari via mare questa sera!» replico entusiasta.

Dopo qualche altro istante trascorso ad ammirare il faro e le scogliere, punto con decisione verso l’aeroporto di Alghero.

A volte basta voltarsi un attimo verso il mare per ricordarsi cosa stiamo cercando

Capo Caccia (foto flight simulator 2024)

Atterraggio

Avvicinandoci all’aeroporto, il clima leggero delle ultime miglia svanisce. Veronika guarda fuori, in silenzio. Skippy si muove nervosa sul sedile, come se sentisse anche lei qualcosa nell’aria.

Atterro dolcemente. Il Cessna rallenta, si ferma. Spegniamo i motori. Nessuno parla.
Veronika ha ancora lo sguardo fisso all’orizzonte.

«Pensi che andrà bene?» chiede sottovoce, quasi temesse la risposta.

Non rispondo subito. Le prendo la mano. Skippy ci osserva, immobile.

«Lo scopriremo tra poco.»

Scendiamo dall’aereo. Il vento di Alghero ci accoglie. Davanti a noi, una città che forse ci darà delle risposte. O forse no.

Ma ormai siamo qui. E a volte è il passo verso l’ignoto che conta davvero.

Non sempre si vola verso una meta. A volte si vola verso una possibilità.

11 – Diario di viaggio Lu Brandali

Entusiasmo e Aspettative

Skippy saltella impaziente attorno a noi, il musetto sollevato, le orecchie tese come se già captasse l’energia del luogo che stiamo per visitare. Vorrebbe correre al sito archeologico subito.

«Prima pensiamo al Cessna» le ricordo «Poi puoi lanciarti all’avventura.»

Lei mi restituisce un’occhiata infastidita, poi si rassegna e si mette all’opera per posizionare i cunei sotto le ruote.

L’aria è ancora fresca, il vento scivola tra l’erba della pista e la macchia mediterranea. Le cinghie delle coperture che stiamo posizionando scattano con un rumore secco.

Quando finalmente terminiamo Skippy si piazza davanti a noi, braccia incrociate e zampa che tamburella nervosa. Poi spalanca le braccia e gesticola con enfasi. Il messaggio è chiaro: «Basta, muovetevi!»

Veronika chiude il vano di carico e si gira verso di me, il volto illuminato dall’eccitazione.

«Pronto?»

Metto lo zaino in spalla, lanciando un’ultima occhiata al Cessna.

«Pronto. Andiamo a vedere questi Giganti.»

Il sito archeologico di Lu Brandali è a pochi minuti di distanza ma l’attesa ci rende impazienti. Saliti a bordo del taxi, l’energia nell’abitacolo è tangibile. Veronika scorre veloce le pagine, gli occhi che brillano. Sta ricontrollando tutto: date, simboli, leggende. Cerca connessioni, conferme, qualcosa che renda tutto ancora più chiaro.

«Non riesco a credere che siamo davvero qui» dice, senza sollevare gli occhi dallo schermo. La sua voce vibra di eccitazione. «Ho letto tanto in questi giorni su questo posto, sulle Tombe dei Giganti, i simboli incisi nelle pietre… Se quello che abbiamo trovato ha anche solo un piccolo collegamento con tutto questo, potrebbe essere incredibile!»

Il suo entusiasmo è contagioso. «Vediamo se la realtà è all’altezza delle aspettative.»

Quando arriviamo Skippy si piazza in testa al gruppo, trotterellando avanti con il musetto in su, il naso che si muove rapido nell’aria: annusa avventura.

Mentre avanza sul sentiero sterrato, Skippy si ferma di colpo. Con le zampe scava leggermente nella terra asciutta e tira fuori un piccolo sasso levigato dal tempo, di un colore rossastro, con venature bianche che sembrano disegni incisi dalla natura. Lo osserva con attenzione, poi lo stringe tra le zampette e lo infila nella sua piccola tasca laterale dello zainetto. Un trofeo, un pezzo di storia tutto suo.

La strada sterrata che conduce al sito è circondata dalla macchia mediterranea. Il cielo sopra di noi è di un azzurro intenso, privo di nuvole.

Ogni passo ci avvicina alla storia. A un luogo che potrebbe nascondere risposte sepolte nel tempo.

Sembra una giornata perfetta.

Ogni grande avventura comincia con un passo deciso… e un cuore pieno di possibilità

il piccolo sasso preso da Skippy (foto Dall-E)

Lu Brandali

Il vento che arriva dal mare scivola tra le fronde dei sugheri, un sussurro discreto che accompagna il nostro passo lungo il sentiero sterrato. L’aria sa di sale e terra calda, un mix che profuma di antico.

Veronika cammina a passo svelto, gli occhi che saltano da un dettaglio all’altro, come se ogni pietra potesse già rivelarle qualcosa. L’entusiasmo le vibra nella voce.

«Ci siamo quasi.» Fa un respiro profondo, cercando di trattenere l’emozione. «Se il simbolo è qui, lo troveremo.»

Davanti a noi il cancello d’ingresso del sito è semplice, in legno, quasi a voler sottolineare che la vera barriera non è fisica ma temporale.

Ci accoglie una guida locale, un uomo sulla cinquantina, con uno sguardo che racconta anni di esplorazioni tra queste rovine. Il suo sorriso è aperto, genuino, nel tono della sua voce c’è l’orgoglio di chi non sta solo spiegando la storia ma la sta raccontando con passione.

«Benvenuti a Lu Brandali.» Allarga un braccio, indicando il sito che si estende oltre il cancello. «Questa è una delle testimonianze più affascinanti della civiltà nuragica qui nel nord della Sardegna.»

Veronika si avvicina, incapace di contenere la sua curiosità.

«Non ho mai visto un sito del genere dal vivo» dice, con un lampo negli occhi. «Sono molto interessata soprattutto a capire di più sulle Tombe dei Giganti

La guida annuisce con un sorriso compiaciuto, lo sguardo che si accende di entusiasmo.

«Ah, i Giganti. Una storia che affascina tutti. Seguitemi.»

Ogni pietra ha una storia da raccontare, basta saperla ascoltare.

Lu Brandali (foto tripadvisor.it)

Tra storia e mito

Seguiamo la guida su un sentiero che si insinua tra antiche capanne nuragiche, alcune ancora ben visibili nella loro forma circolare. Il tempo ha smussato i contorni delle pietre ma il villaggio di Lu Brandali conserva ancora la sua imponenza.

La guida si ferma, allarga le braccia come per abbracciare il panorama antico.

«Quello che vedete attorno a voi è un villaggio nuragico, abitato tra il XIV e il IX secolo a.C.» indica le strutture con entusiasmo. «Un’epoca lontana, in cui la Sardegna era abitata da un popolo che ha lasciato segni profondissimi della sua esistenza: i Nuragici appunto.»

Si volta verso di noi, il viso illuminato da un sorriso.

«Sapete da cosa deriva il nome ‘nuragico’? Dai nuraghi, ovviamente.»

Sorride indicando un punto lontano tra la vegetazione.

«Quella torre laggiù, ad esempio, è un nuraghe. Uno dei migliaia disseminati su tutta l’isola.»

Ci fermiamo ad osservare la struttura appena visibile tra gli alberi.

«I nuraghi erano fortezze ma anche centri abitativi, templi, forse osservatori astronomici. Alcuni hanno una struttura complessa con torri concentriche, cunicoli, pozzi sacri. Pensate: ne esistono più di settemila e, ancora oggi, non conosciamo del tutto la loro funzione.»

Veronika annuisce, affascinata. «Settemila? Quindi era una civiltà molto più avanzata di quanto si pensasse.»

La guida si illumina.

«Esattamente. Per secoli si è pensato che i nuragici fossero una popolazione isolata e primitiva. Oggi però sappiamo che commerciavano con il mondo mediterraneo, influenzando e venendo influenzati da altre culture.»

Si ferma accanto a un’imponente lastra di pietra verticale levigata dal tempo. La superficie è segnata da segni quasi impercettibili, consumati dal vento e dalla pioggia.

«Questa è una delle strutture più importanti del sito.»

Si volta verso di noi e abbassa la voce, quasi con rispetto.

«La Tomba dei Giganti

Settemila torri di pietra e un mistero ancora da svelare.

Tomba dei Giganti (foto nurnet.net)

La leggenda dei Giganti

Ci voltiamo di scatto, come rispondendo a una chiamata silenziosa del passato.

Davanti a noi si erge una lunga sepoltura collettiva, il suo corridoio funerario ormai scoperto, incorniciato da grandi pietre disposte a semicerchio. Il tempo sembra rallentare.

«Le chiamano Tombe dei Giganti» continua la guida «perché le loro dimensioni imponenti hanno alimentato la leggenda che qui fossero sepolti esseri giganteschi.»

Skippy inclina la testa, affascinata.

La guida si avvicina alla pietra più grande e posa una mano sulla superficie ruvida.

«La realtà è diversa» spiega con tono appassionato «ma non meno affascinante. Queste tombe erano destinate ai membri più importanti della comunità nuragica.»

Indica il corridoio centrale scoperto.

«Guardate qui. Era un luogo di sepoltura, sì, ma anche di culto. Gli antichi nuragici credevano nella continuità tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Qui si riunivano per rendere omaggio agli antenati, lasciavano offerte, celebravano riti per chiedere protezione o conoscenza.»

Veronika si avvicina, le dita sfiorano la pietra più grande, come se potesse risalire indietro nel tempo solo toccandola.

«E i Giganti di Mont’e Prama?» chiede, con un filo di eccitazione nella voce. «Potrebbero essere collegati a queste tombe?»

La guida incrocia le braccia e sorride, quasi aspettandosi la domanda.

«Ah, la grande domanda.»

Si ferma un istante, assaporando il momento.

«I Giganti di Mont’e Prama sono un mistero. Statue nuragiche alte fino a tre metri trovate vicino a Cabras.»

Si avvicina a noi e abbassa la voce.

«Nessuno sa con certezza chi rappresentassero: guerrieri? Divinità? Campioni di giochi sacri? Sono unici nel loro genere, non abbiamo trovato nulla di simile in altre civiltà antiche.»

Veronika si sporge leggermente in avanti. «Quindi… potrebbero essere la prova che la civiltà nuragica aveva una cultura più complessa di quanto si pensasse?»

La guida annuisce con un sorriso enigmatico.

«La prova o almeno un indizio.»

Fa una pausa, poi aggiunge con tono più basso, quasi a voler accentuare il peso di quelle parole.

«Alcuni studiosi credono che siano la prima rappresentazione a grandezza naturale di esseri umani mai realizzata nel Mediterraneo. Se così fosse, sarebbero più antichi dei kouroi greci, scolpiti secoli dopo.»

Mi scappa un’esclamazione sorpresa.

«A grandezza naturale? Tre metri, per l’epoca, erano davvero misure da giganti!»

La guida si gira verso di me, con uno sguardo che mescola entusiasmo e mistero.

«Esattamente. Pensateci: fino a quel momento, nessuna civiltà conosciuta aveva scolpito esseri umani a dimensioni così monumentali. Gli Egizi avevano statue colossali ma raffiguravano divinità e faraoni. I Greci, invece, ancora non avevano sviluppato la loro scultura classica.»

Si ferma un istante, lasciando che il concetto si depositi.

«Se queste statue fossero davvero le prime rappresentazioni a grandezza naturale di uomini, cambierebbe tutto ciò che sappiamo sulla storia dell’arte e della scultura nel Mediterraneo.»

Veronika mi lancia un’occhiata rapida. Skippy è immobile, gli occhi spalancati.

L’entusiasmo è alle stelle.

Giganti o antenati? La leggenda scolpita nella pietra continua a sfidare il tempo.

Giganti di Mont’e Prama (foto artemagazine.it)

Il Momento della Verità

Il sentiero si stringe man mano che lasciamo la Tomba dei Giganti alle nostre spalle. La guida ci fa segno di seguirlo senza dire una parola. Le rocce scolpite dal tempo emergono dalla terra come reliquie dimenticate, testimoni di un passato che non ha ancora svelato tutti i suoi segreti. L’aria si fa più densa, il vento ha smesso di soffiare, come se anche la natura trattenesse il respiro.

Veronika cammina avanti, il passo deciso, gli occhi incollati all’orizzonte. Non parla ma il suo corpo tradisce l’agitazione. Sta aspettando. Sta cercando qualcosa.

Poi, all’improvviso, si blocca. Davanti a noi una grande roccia spunta dal terreno.

È quella della foto.

Accelera il passo, il tablet saldo tra le mani. Osserva la superficie, scansiona ogni linea, ogni imperfezione.

Per un attimo, tutto sembra perfetto. Poi, qualcosa cambia.

Veronika si blocca.

Il silenzio si fa denso, quasi tangibile.

«Che succede?» chiedo, avvicinandomi.

Le sue mani tremano leggermente mentre stringe il tablet. Lo sguardo salta dalla foto alla pietra. La sua espressione cambia: prima sorpresa, poi confusione, infine… incredulità.

Il simbolo è simile ma le linee non combaciano.

Skippy abbassa lentamente le orecchie, come se potesse percepire il peso della delusione. La guida ci osserva, incuriosita.

«C’è qualcosa che non va?»

Veronika deglutisce. La sua voce è rotta, come se le parole le pesassero sulle labbra.

«Pensavamo di aver trovato qualcosa di importante.»

La guida inclina la testa, il tono più cauto.

«Sul web abbiamo trovato una foto di questa roccia. Si vedeva questo simbolo inciso sopra. L’immagine era di pessima qualità e sgranata ma credevamo fosse identico a un simbolo scoperto in un antiquario a Bonifacio…»

Fa un respiro profondo.

«Ma ora, vedendola dal vivo, mi rendo conto che è solo simile.»

La guida si avvicina, posa una mano sulla pietra. Le sue dita scorrono lentamente sulla superficie, tracciando le linee del tempo.

Annuisce. «Capisco… sì, capisco bene.» Si volta verso Veronika, con un sorriso che non è di derisione ma di comprensione. «Sapete, l’archeologia è così. A volte trovi quello che cerchi. Altre volte trovi solo nuove domande.»

Veronika non si arrende. Con un gesto deciso, tira fuori la stoffa trovata a Bonifacio e la porge alla guida.

«Guardi. Su questo tessuto, oltre al simbolo, c’è una scritta. Pensavamo potesse essere un collegamento.»

La guida la osserva con attenzione. Passa le dita sulle lettere sbiadite, indugia su ogni segno.

Il silenzio si allunga.

«Effettivamente…» mormora infine grattandosi il mento. «Ci sono delle similitudini.» Il suo tono si fa più incerto. «Avrebbe tratto in inganno anche me.»

Uno spiraglio di speranza. Veronika trattiene il fiato.

«Quindi… potrebbe significare qualcosa?»

La guida sospira. Ci pensa un attimo, poi le restituisce la stoffa.

«Vorrei dirvi di sì ma non posso. Se ci fosse un collegamento… sarebbe una scoperta straordinaria. Tuttavia non ho elementi per confermarlo.»

Veronika stringe la stoffa tra le dita, come se potesse ancora rivelarle qualcosa.

La guida abbassa lo sguardo. «Mi dispiace.»

Silenzio.

Poi il vento torna a soffiare. Portandosi via, forse, anche un pezzo del nostro entusiasmo.

A volte la verità è sfuggente quanto il tempo che l’ha sepolta.

il simbolo sulla stoffa (foto Dall-E)

Una sentinella solitaria

Lasciamo il sito archeologico con passi più lenti.

Skippy cammina accanto a Veronika, le orecchie basse, la coda immobile. Non saltella, non lancia sguardi curiosi ai cespugli o agli uccelli che passano sopra di noi. Di solito evita ogni sforzo inutile ma ora procede come per inerzia.

Veronika scorre le immagini sul tablet ma so che non sta davvero guardando. È come se cercasse una risposta che ormai sa di non trovare.

Mi avvicino e le sfioro la spalla.

«Forse non era la pista giusta… ma magari stiamo solo guardando nel posto sbagliato.»

Lei non dice nulla, si limita ad annuire, lo sguardo ancora perso nel vuoto.

Ci allontaniamo senza parlare. Il sentiero si snoda lungo la costa, tra scogliere a picco sul mare. Il suono delle onde riempie il silenzio tra noi. Veronika ha lo sguardo perso all’orizzonte ma so che sta guardando ben oltre. Sta cercando qualcosa. Sta cercando un senso.

Io non so cosa dirle.

Il faro di Capo Testa si staglia davanti a noi, bianco, immobile, affacciato sull’orizzonte aperto. Un tempo la sua luce guidava i marinai tra queste acque insidiose. Oggi sembra solo vegliare sui pensieri di chi lo osserva.

Veronika si appoggia alla ringhiera, fissando il mare. «E se avessimo sbagliato tutto?»

La sua voce è bassa. Non cerca una risposta. Cerca una certezza.

Per un attimo vorrei trovarla anch’io ma non so se esista. Respiro a fondo. L’odore del mare riempie i polmoni. Un’onda si infrange contro le rocce, schizzando in alto, come se volesse raggiungerci.

Rimaniamo lì, fermi, in silenzio. La luce del giorno comincia ad abbassarsi. Le ombre si allungano sulle scogliere, il cielo assume sfumature dorate.

Guardo il mare con lei. Le onde continuano a infrangersi, indifferenti alla nostra frustrazione.

Poi, senza voltarmi, cerco di alleggerire l’aria.

«Andiamo a mangiare qualcosa di tipico?»

Di solito, queste parole basterebbero a riportarla alla realtà, a farle brillare gli occhi.

Oggi non funziona.

Lei non si muove, non alza lo sguardo. La sua mente è ancora persa tra quelle pietre e simboli incomprensibili.

Come il faro veglia sul mare, anche i dubbi restano immobili, in attesa di una nuova rotta.

Faro di Capo Testa (foto discovergallura.it)

tra storia e mare

Arriviamo a Santa Teresa di Gallura, le case bianche e basse, tipiche dell’architettura mediterranea, si affacciano sulle viuzze strette, immerse tra fioriere e terrazze colorate. Le strade, pavimentate con pietra chiara, riflettono la luce dorata del tramonto.

L’aria profuma di salsedine e cucina casalinga. Dalle finestre aperte escono voci e risate, mescolandosi al suono del vento che porta con sé il respiro del mare.

Santa Teresa ha un fascino discreto, un piccolo borgo affacciato su un passato di marinai, pescatori e commercianti. La sua storia è legata a Bonifacio, la città corsa che si intravede all’orizzonte nelle giornate limpide e nella quale abbiamo passato gli ultimi giorni.

Ora sembra così lontana.

Fu fondata da Vittorio Emanuele I di Savoia per difendere questa costa dalle incursioni piratesche e rafforzare il controllo sardo su queste acque instabili.

Oggi è un luogo dove il turismo si mescola alle tradizioni locali, dove ogni via sembra accoglierti con il calore di un paese che ha imparato a vivere tra mare e vento.

Ma noi non siamo qui per il turismo.

Siamo qui per cercare risposte.

E oggi, quelle risposte non sono arrivate.

A volte le risposte sembrano così vicine da poterle sfiorare ma restano comunque irraggiungibili, come una città sull’orizzonte.

Santa Teresa di Gallura (foto sardegna.info)

il cielo della Sardegna

Propongo un ristorantino che sembra promettente ma Veronika si ferma.

«Preferisco prendere qualcosa da asporto. Poi, scusa ma non ho proprio fame.»

La sua voce è piatta, senza energia. Capisco come si sente. Non ha voglia di stare seduta in un ristorante, così continuiamo a camminare tra i vicoli, senza una meta precisa.

Troviamo un piccolo localino che serve pane carasau caldo con pecorino fuso e miele, una specialità semplice ma perfetta da mangiare passeggiando. Prendiamo anche una porzione di seadas, il tipico dolce fritto ripieno di formaggio, per addolcire l’amarezza della giornata.

Camminando arriviamo fino alla spiaggia di Rena Bianca a pochi passi dal centro. Scendiamo verso la battigia, il rumore delle onde che si infrangono sulla sabbia chiara ci avvolge.

Ci sediamo, il mare davanti a noi immenso e indifferente ai nostri pensieri.

Veronika prende un morso dal pane ma lo mastica distrattamente. Poi abbassa lo sguardo.

«Mi dispiace.»

La sua voce è un soffio.

Mi volto verso di lei, sorpreso. «Per cosa?»

«Per averti portato fin qui… per averti fatto credere che questa fosse una pista sicura.»

Scuoto la testa. Non è così che voglio che la veda.

«Veronika, anche io volevo questa avventura. E comunque…» Fisso l’orizzonte per un istante, poi la guardo e sorrido. «Ti seguirei ovunque.»

Veronika mi osserva, il tramonto riflesso nei suoi occhi chiari. Per un attimo, il peso della giornata sembra alleggerirsi. Skippy si accoccola tra noi, il musetto rivolto verso il mare. Senza pensarci, ci stringiamo tutti e tre, lasciando che il rumore delle onde ci avvolga.

Restiamo così per un po’, ascoltando solo il respiro del mare. Non abbiamo trovato quello che cercavamo ma siamo ancora insieme.

E forse, per ora, è abbastanza.

Le onde portano storie da lontano ma alcune risposte restano sepolte nella sabbia del tempo.

Spiaggia di Rena Bianca (foto sardegnaturismo.it)

Incontro inaspettato

Torniamo verso il centro. Veronika, anche se è ancora presto, vuole rientrare in albergo. Cammina in silenzio, le braccia strette attorno a sé, persa nei suoi pensieri.

Il brusio della cittadina si affievolisce man mano che ci addentriamo nei vicoli. L’aria è più fresca ora, la brezza marina si insinua tra le strade strette, mescolandosi ai profumi delle cucine che cominciano a riempirsi di voci e risate.

Poi, mentre giriamo un angolo, qualcuno ci nota e si blocca.

«Voi…»

La voce ci coglie di sorpresa. Ci giriamo e vediamo una sagoma nel crepuscolo. La poca luce del tramonto non ci permette di distinguere bene il volto ma la postura, il modo in cui si aggiusta la tracolla sulla spalla, ci sono familiari.

Solo quando si avvicina abbastanza lo riconosciamo. È la guida del sito archeologico.

Ci scruta per un istante, poi si passa una mano sulla nuca, come chi sta valutando se parlare o lasciar perdere.

«Non pensavo di incontrarvi di nuovo» dice infine, con un mezzo sorriso incerto. «Ma vi ho pensato tutto il tempo, quando siete andati via mi è venuta in mente una cosa e… forse potrebbe interessarvi.»

Esita un attimo, poi prosegue.

«Una mia collega, ora in pensione… Gavina, se non ricordo male. Anni fa seguiva una pista simile alla vostra o almeno qualcosa di collegato a quei simboli.»

Veronika si illumina all’istante. L’energia che sembrava spenta per tutta la serata riaffiora nei suoi occhi.

«Dove possiamo trovarla?» chiede senza esitazione.

Lui scuote la testa.

«Non lo so con certezza.» Si passa una mano tra i capelli, pensieroso. «Dopo il pensionamento ho perso le sue tracce. So solo che viveva qui a Santa Teresa di Gallura. Forse è ancora in zona.»

Veronika annuisce. Il suo sguardo è già proiettato altrove, la sua mente sta già cercando una soluzione.

«Grazie.»

La guida ci osserva un istante, poi sorride appena.

«Mi sembrava giusto dirvelo. Forse non è nulla… o forse vi porterà più lontano di quanto pensiate.»

Ci stringiamo la mano e lo salutiamo. Lui riprende il cammino, perdendosi tra le ombre della sera, mentre noi proseguiamo verso l’albergo.

Appena entriamo in camera Veronika si lascia cadere sul letto e, senza dire nulla, apre il tablet. Skippy, attenta, si sistema accanto a lei.

Io le osservo per un attimo, sorridendo tra me. Le rivedo finalmente speranzose e questo basta per farmi sentire meglio.

Prendo il necessario e decido di farmi una doccia. L’acqua calda mi scorre sulla pelle, sciogliendo la tensione accumulata durante la giornata. Mi prendo il mio tempo, lasciando che il rumore dell’acqua copra i pensieri.

Quando esco dal bagno, Veronika è ancora lì, lo sguardo incollato al tablet.

«L’ho trovata.»

Mi fermo un attimo, asciugamano ancora tra le mani.

«E le hai scritto?»

«Sì ma ancora nessuna risposta.»

Mi siedo accanto a lei e le passo una mano sulla spalla.

«Diamo tempo al tempo.» Le sorrido, cercando di rassicurarla.

Veronika annuisce ma il suo sguardo non si stacca dallo schermo.

Aspetta. Sperando che qualcosa cambi.

A volte le risposte non vanno cercate, sono loro a trovare te, quando meno te lo aspetti

La Guida di Lu Brandali (foto leonardo.ai)

La risposta che non arriva

La stanza è immersa in una calma irreale. Veronika continua a scorrere il tablet, anche se ormai ha controllato tutto più volte.
Skippy, stanca di aspettare, si è accoccolata accanto a lei ma tiene ancora un occhio aperto, come se anche lei fosse in attesa di qualcosa.

Mi stiracchio, pronto a spegnere la luce.
«Dai, dormiamoci su…»

Veronika esita. Il pollice sospeso a mezz’aria sopra lo schermo. Guarda ancora il tablet, poi sbuffa piano e chiude la chat, le dita lente sul touchscreen.
«Hai ragione…» sussurra.

Si appoggia allo schienale, lasciando che la stanchezza la avvolga.
Skippy si stiracchia con un lungo sbadiglio e le si accoccola accanto, in silenzio.

Le luci si abbassano, la stanza scivola nel buio.
Veronika sospira, chiude gli occhi per un momento. Poi li riapre. Allunga la mano verso il tablet, indecisa se dare un ultimo sguardo.

Si ferma.

Poi, lentamente, spegne lo schermo.

Nessuno lo dice. Ma stiamo tutti aspettando solo una cosa.

Risponderà?

11 + Diario di Volo Bonifacio Santa Teresa

Decollo da Firgi

Il pannello del motore è ancora aperto, le mani si muovono con gesti ormai automatici mentre eseguo gli ultimi controlli. Un’occhiata all’olio, ai cablaggi, agli scarichi. Tutto in ordine. L’aria del mattino è ferma, carica di quella tensione elettrica che precede ogni decollo.
Alzo lo sguardo e osservo il Cessna 172, immobile sulla piazzola dell’aeroporto di Figari Sud-Corse, pochi chilometri a nord di Bonifacio. Dopo giorni di manutenzione e attesa è finalmente arrivato il momento di ripartire. Questa non è solo una tappa, è l’inizio di un nuovo viaggio. Una nuova direzione, senza un piano definito. Abbiamo deciso solo la prima destinazione. Il resto lo scopriremo strada facendo, come sempre.

Mi giro verso Veronika che, con un panno ormai annerito dall’uso, sta passando l’ennesima mano sulla carlinga. Un gesto quasi inconsapevole, la testa persa in qualche pensiero.
Alzo un sopracciglio e le sorrido. “Direi che può bastare. Se continua così, penseranno che l’abbiamo appena ritirato dalla fabbrica.”

Lei sorride imbarazzata, tornando al mondo reale, lasciando finalmente il panno. Nei suoi occhi brilla quella scintilla particolare che conosco bene. Non è solo l’emozione di ripartire. È la frenesia della scoperta. Il simbolo inciso su quel pezzo di stoffa, il mistero che avvolge il suo significato, il collegamento con la Sardegna… tutto la spinge avanti. Prova a dissimulare ma lo percepisco in ogni suo gesto.

Un movimento all’interno della cabina cattura la mia attenzione. Skippy, la nostra piccola mascotte, è già al posto del copilota, intenta a controllare la checklist pre-volo a modo suo. Le sue grandi orecchie da fennec vibrano leggere a ogni suono, gli occhialoni da pilota spinti sulla fronte come quelli di un aviatore d’altri tempi.

“Skippy, cominciamo con i controlli.”

Si raddrizza di scatto, concentrata. Ha imparato a memoria alcune procedure e, nei limiti del possibile, mi aiuta nei controlli mentre io concludo l’ispezione esterna.
Ad ogni mia richiesta, effettua il controllo e poi alza la zampa per confermarmi che tutto è ok.
Sorrido. Mi piace quest’atmosfera da squadra affiatata, dove ognuno ha il proprio compito e lo svolge con precisione.

Finiti i controlli chiudo il pannello del motore, do un’ultima occhiata attorno e salgo in cabina. Skippy esegue un piccolo balzo sui sedili posteriori e si allaccia la cintura. Veronika si sistema accanto a me, indossa le cuffie e comunica per radio.

Figari Ground, Cessna November 172SW, richiediamo autorizzazione all’accensione motore e al rullaggio.”
La risposta arriva pochi istanti dopo, un suono ovattato nelle cuffie. Siamo autorizzati a rullare verso la pista 23.

Veronika mi fa un cenno con la mano. Posso accendere il motore.
Indosso anche io le cuffie, respiro profondamente poi giro la chiave d’accensione.

L’elica inizia a muoversi. Il suono del motore cresce, un rombo profondo e familiare che risuona nel petto. Un suono che segna la fine dell’attesa.
Rilascio i freni. L’aereo scivola sulla taxiway, dirigendosi verso la pista di decollo. Ci muoviamo lentamente ma in cabina l’energia è palpabile.

Veronika controlla il tablet di bordo, ancora rapita dall’idea di ripartire. Skippy ha il musetto appoggiato al vetro, completamente immersa nel momento. Io, invece, sento il peso della responsabilità che mi scorre lungo la schiena.
Essere il pilota significa essere responsabile. Sempre. Ogni volo porta con sé un carico di concentrazione, ogni decollo è una promessa di portare a destinazione il mio equipaggio sano e salvo. Eppure c’è anche l’adrenalina.
L’emozione che cresce, quella vibrazione nel petto che dice che stiamo andando verso l’ignoto.

Ci fermiamo prima dell’ingresso in pista, come da procedura. Attendiamo l’autorizzazione all’accesso, regolato per garantire la massima sicurezza e impedire possibili collisioni.

Guardo Veronika, lei guarda me.

Per un istante nessuno parla. C’è emozione nei suoi occhi, la stessa che so essere nei miei. Ci prendiamo la mano, un gesto semplice ma che porta con sé tutta la forza di cui abbiamo bisogno.

Poi, finalmente, la voce della torre rompe l’attesa.

“Cessna November 172SW, autorizzati al decollo, pista 23, direzione sud-est.”

Ci siamo.

Entro in pista e spingo la manetta in avanti.
Il rumore del motore cresce di intensità, le vibrazioni aumentano mentre l’aereo prende velocità, la pista scorre sotto di noi.

Controllo l’indicatore della velocità. 40… 50… a 65 nodi, tiro leggermente il volantino verso di me.

C’è quel momento perfetto, sospeso tra il suolo e il cielo, in cui il peso dell’aereo non è più sostenuto dalle ruote ma ancora non siamo del tutto in volo.

Poi il momento in cui tutto cambia. Le ruote lasciano la pista.

Siamo in aria.

Lascio che l’aereo guadagni quota, il profilo della Corsica inizia a rimpicciolirsi sotto di noi.

Una nuova avventura è appena iniziata.

Ogni ripartenza porta con sé il brivido dell’ignoto e la promessa di nuove scoperte.

il Cessna con le protezioni in attesa sulla piazzola (foto flight simulator 2024)

Saluto alla Corsica

Virando dolcemente verso sud allineo il muso del Cessna 172 in direzione della nostra meta: la Sardegna. Il sole del mattino illumina il mare sotto di noi, creando un contrasto quasi surreale tra il blu profondo dell’acqua e il bianco delle falesie di Bonifacio che si stagliano come una muraglia naturale.

Siamo stati qui per giorni, abbiamo camminato lungo quei bastioni, abbiamo respirato la storia di questa cittadella medievale. Eppure, vederla ancora dall’alto le restituisce un fascino diverso.

“Guarda il porto” dice Veronika, indicando in basso. “Non sembra quasi sparire dentro le rocce?”

Abbasso lo sguardo e osservo il piccolo fiordo naturale che ospita il porto di Bonifacio. Un rifugio perfetto, nascosto tra le falesie, quasi invisibile dal mare aperto. Da terra sembrava già incredibile, con le sue acque placide incastonate tra pareti di pietra ma, da quassù, la sua forma si rivela ancora più sorprendente.

“Non c’è da stupirsi che fosse un punto strategico perfetto” rispondo. “Difficile da vedere, facile da difendere. Chiunque cercasse di assediare la città doveva prima trovare il modo di entrare.”

Sorvoliamo lentamente la cittadella. Le case si affacciano a picco sul vuoto, alcune così vicine al bordo che sembrano sospese nell’aria.

“Sai cosa ho letto che mi sono dimenticata di dirti?” riprende Veronika. “Le falesie sono in costante arretramento. Il vento e il mare le erodono giorno dopo giorno.”

“Immaginavo… ma quanto possono essere cambiate?”

“Abbastanza da inghiottire una casa intera.” Fa una pausa, poi continua: “Nel 1966 un intero tratto di costa crollò improvvisamente. Una casa, con dentro i suoi abitanti, finì giù insieme a una parte delle fortificazioni originali.”

Resto in silenzio per un istante, lasciando che il peso di quelle parole si depositi tra noi. Bonifacio, con la sua imponenza, sembra eterna. E invece anche le pietre che la sorreggono sono vulnerabili.

Scambiamo un ultimo sguardo con la città che ci ha ospitati. Bonifacio è stata la nostra tappa di arrivo, il punto in cui le prime dieci tappe del nostro viaggio si sono concluse. Ora, vederla allontanarsi sotto di noi segna davvero la fine di quel capitolo.

Veronika sospira e appoggia la testa al sedile. “Mi mancherà un po’” ammette con un sorriso malinconico. Poi scuote la testa e aggiunge con leggerezza: “Ma devo essere sincera… cominciavo ad annoiarmi.”

Sorrido, perché in fondo la penso allo stesso modo. Abbiamo atteso fin troppo per ripartire. Ora, con la rotta puntata a sud, tutto sembra di nuovo possibile.

Dal cielo ogni luogo svela una nuova anima: Bonifacio non fa eccezione.

Il Porto di Bonifacio visto dal Cessna (foto flight simulator 2024)

Bocche di Bonifacio

Il tratto di mare che separa la Corsica dalla Sardegna: le famose Bocche di Bonifacio si staglia ora avanti a noi. Un passaggio breve, meno di 12 chilometri di mare aperto, eppure insidioso. Le correnti qui sono imprevedibili, il vento può cambiare direzione in un istante. Anche dall’alto il mare sembra quasi avere una sua volontà, con scie bianche di schiuma che si formano e si dissolvono senza un apparente ordine.

“Non è un caso che queste acque siano tra le più temute dai marinai” dico, ricordando le parole di un pescatore di Bonifacio.

Veronika annuisce. “Leggevo anche che alcuni storici pensano che Ulisse sia passato proprio di qui. Lo sapevi?”

La guardo con curiosità.

“Davvero?”

“Sì. Nell’Odissea, l’episodio dei Lestrigoni – i giganti cannibali che distrussero la flotta di Ulisse – potrebbe essere ambientato in queste acque. Bonifacio, con le sue pareti a strapiombo, ricorda proprio la descrizione della terra dei Lestrigoni, con un porto stretto e nascosto tra le rocce.”

Dalle mie spalle Skippy si allunga verso il finestrino, le zampette premute sulla cornice, il musetto quasi incollato al vetro. Al solo sentire la parola “giganti” ha drizzato le orecchie, l’eccitazione evidente nel piccolo fremito della coda. Prova a contenersi, proprio come Veronika, ma ormai la conosco troppo bene per non notarlo. Sta aspettando, paziente, che ci dirigiamo verso quello che davvero la interessa.

Faccio finta di nulla e osservo ancora il mare sotto di noi. Immagino quelle antiche navi, intrappolate tra le falesie, i marinai presi dal panico mentre le imbarcazioni venivano fatte a pezzi da enormi massi scagliati dall’alto.

“Beh, se fosse vero, direi che abbiamo fatto bene a sorvolarlo invece che ad affrontarlo via mare” commento con un sorriso.

Veronika ride, poi il suo sguardo si sposta a est, la sua espressione cambia. “Quella invece è l’Isola di Lavezzi. Un puntino di terra circondato da scogli affioranti, un luogo che da quassù sembra tranquillo… ma che cela una delle tragedie più drammatiche della storia della navigazione.” Fa una pausa. I suoi occhi restano fissi sull’isola, poi riprende. “Lì, nel 1855, la fregata francese Sémillante, una nave della Marina imperiale, si schiantò sugli scogli durante una tempesta. A bordo c’erano circa 700 uomini. Nessuno si salvò.”

Rimane in silenzio per un attimo, come se potesse sentire il peso di quella storia.

“I pescatori della zona evitano ancora l’isola nelle notti di tempesta” riprende dopo un attimo di riflessione. “Dicono che, in quelle notti, il vento porti ancora i lamenti dei naufraghi.”

Una raffica improvvisa scuote l’aereo, spezzando per un attimo il silenzio. Per un istante, lasciamo che sia solo il rumore del motore a riempire la cabina. Il mare sotto di noi continua a cambiare, mostrando vortici e correnti che sembrano disegnare sentieri invisibili sulla superficie dell’acqua.

“Eccola” dico, stringendo leggermente i comandi. “Ci siamo quasi.”

Tra gli scogli della Lavezzi riecheggia il passato: il vento non dimentica le tragedie del mare.

la piccola isola di Lavezzi (foto flight simulator 2024)

L’Arcipelago della Maddalena

Le scogliere imponenti della Corsica lasciano spazio alle dolci colline sarde, punteggiate da macchia mediterranea e interrotte dai massicci granitici che si tuffano nel mare. Il passaggio è netto, quasi come se il mare separasse non solo due terre ma due mondi.

L’Arcipelago della Maddalena si dispiega come un mosaico di isole e calette immerse in un mare che varia dal turchese al verde smeraldo. Sette isole principali e una miriade di isolotti più piccoli, un paradiso che per secoli ha visto passare navigatori, eserciti e avventurieri.

“Guarda lì sotto.”

Quasi grido per l’emozione a Veronika in cuffia mentre sorvoliamo Budelli, con la sua leggendaria Spiaggia Rosa. Un angolo di paradiso unico al mondo, protetto per impedirne il degrado.

“Quella è la Spiaggia Rosa di cui mi parlavi?” chiede Veronika.

Annuisco. “Sì. Il suo colore viene da minuscoli frammenti di conchiglie e coralli. Un tempo la sabbia era ancora più rosa ma il turismo incontrollato l’ha rovinata. Le persone portavano via la sabbia come ricordo. Per questo oggi è vietato avvicinarsi: nel 1994, con l’istituzione del Parco Nazionale dell’Arcipelago della Maddalena, l’intera area è stata protetta per preservarne la bellezza.”

Veronika osserva ancora per qualche secondo l’isola che scivola sotto di noi. “Forse è meglio così. Alcune cose dovrebbero restare intatte. Soprattutto se non si ha la capacità di rispettarle.”

Proseguiamo sopra Caprera, l’isola che ospitò l’ultimo capitolo della vita di Giuseppe Garibaldi.

“Là sotto, tra la macchia mediterranea, c’è la Casa di Garibaldi.” dico, poi mi giro verso Skippy. “Sai chi era?”

Lei scuote la testa poi la inclina curiosa, le orecchie ben dritte.

“Un grande condottiero” continuo. “Uno di quei personaggi che hanno segnato la storia italiana. Ha combattuto per unificare l’Italia ma, dopo anni di guerre e battaglie, ha scelto di ritirarsi qui, lontano dalla politica e dalle tensioni del nuovo Stato.”

“Perché proprio qui?” chiede Veronika.

“Sembra che Garibaldi visitò Caprera per la prima volta nel 1855 e se ne innamorò. Comprò un pezzo di terra e costruì la sua casa. Dopo la presa di Roma nel 1870, quando ormai il suo sogno di un’Italia unita si era realizzato, scelse di ritirarsi definitivamente qui, lontano dalla politica e dalle guerre.”

Skippy inclina la testa, perplessa. Poi lancia uno sguardo rapido verso Veronika, come a cercare conferma.

“È vero” dice lei sorridendo. “E pensa che per un periodo i governi europei lo consideravano un pericolo, perché ovunque andasse c’era una rivoluzione.”

Skippy sbatte le palpebre, perplessa.

“Prima dell’Italia ha combattuto in Sud America” aggiungo. “In Brasile, in Uruguay… sempre dalla parte di chi voleva libertà e giustizia. Ovunque andasse la sua camicia rossa diventava il simbolo della rivolta. Per questo lo chiamavano ‘l’Eroe dei Due Mondi’.”

Skippy fissa l’isola ancora per un po’, poi torna a incollarsi al finestrino, osservando l’acqua sotto di noi come se volesse imprimere nella memoria ogni sfumatura di quel mare.

“Abbiamo ufficialmente raggiunto la Sardegna” annuncio. “Ora inizia davvero il nostro viaggio.”

Tra due mondi divisi dal mare, abbiamo trovato un luogo che chiede solo di essere rispettato.

l’Isola di Caprera (foto flight simulator 2024)

Costa Smeralda

Il paesaggio inizia a cambiare mentre seguiamo la costa della Gallura.

Veronika ha preso la sua immancabile guida e ha iniziato a scorrerne le pagine da quando abbiamo lasciato Caprera.

“Siamo sulla Costa Smeralda dice, leggendo. “O meglio, in quello che fino a pochi decenni fa era solo un angolo isolato della Sardegna.” Fa scorrere lo sguardo sulle righe successive, poi riprende. “Fino agli anni ’60 qui c’erano solo pascoli e stazzi, le tradizionali fattorie sarde. Non c’erano strade, né porti turistici, né ville. Solo terra dura, vento e greggi di pecore. A quanto pare tutto cambiò quando il principe Karim Aga Khan IV, facente parte dell’élite internazionale e, sembra, discendente del profeta Maometto, scoprì questa costa e decise di trasformarla in una meta esclusiva per miliardari e celebrità.”

“È stato questo principe a volerla rendere un paradiso per i ricchi?” chiedo curioso.

Lei scorre il dito sul testo. “Sembra proprio di sì e ha subito attirato investitori e architetti da tutto il mondo. Ah, senti questa. Il nome ‘Costa Smeralda’ non è stato scelto solo per il colore dell’acqua. Uno degli imprenditori coinvolti nel progetto, Giuseppe ‘Kerry’ Mentasti, voleva chiamarla ‘Costa Esmeralda’, in onore di sua figlia Esmeralda. Poi si decise di togliere la ‘E’ per renderlo più elegante e più italiano.”

Guardo giù ascoltandola, proprio mentre sorvoliamo lentamente l’Hotel Cala di Volpe, una delle icone della Costa Smeralda. La sua architettura è inconfondibile, con forme arrotondate e dettagli che ricordano un antico borgo.

Veronika aggrotta la fronte, leggendo un passaggio. “Aspetta… qui dice che vicino all’hotel ci sono delle rovine medievali.” Poi si ferma e sorride. “Senti questa, sono rovine false, create ad arte. La guida dice che furono progettate dall’architetto Jacques Couëlle. Pensava che un’aria di antichità avrebbe reso tutto più esclusivo, così ha costruito delle finte rovine medievali accanto all’hotel.”

Scoppio a ridere. “Quindi… hanno letteralmente inventato una storia per rendere il posto più esclusivo.”

“E non è l’unica cosa surreale successa qui. Negli anni, in Costa Smeralda si sono organizzate le cose più assurde: gare di cavalli sulla spiaggia, feste su yacht da milioni di euro, persino James Bond ci è passato nel 1977, nel film La spia che mi amava.” Prosegue, divertita. “Abbiamo appena sorvolato spiagge protette dove è vietato persino camminare per non rovinare la sabbia… e qui sotto c’è gente che atterra in elicottero per prendere un caffè da 50 euro.”

Sorrido. “Due mondi diversi, separati da pochi chilometri.”

Il contrasto tra la natura selvaggia della Gallura e l’opulenza della Costa Smeralda è evidente mentre sorvoliamo la costa. Poi, con una virata lenta, iniziamo a lasciarci alle spalle il lusso sfrenato, puntando verso la nostra prossima destinazione.

Bastano pochi chilometri per passare dal selvaggio al lusso ma il vero viaggio è saper riconoscere entrambi.

Porto Cervo visto dal Cessna (foto flight simulator 2024)

Crescendo di emozioni

Tornando verso nord il lusso e l’eleganza della Costa Smeralda lasciano spazio a una natura più selvaggia e autentica. Le spiagge affollate scompaiono, sostituite da insenature rocciose e tratti di costa quasi inaccessibili.

Dopo Cala di Volpe in cabina è calato un silenzio quasi strano. Veronika è rimasta assorta nei suoi pensieri, lo sguardo fisso sull’orizzonte. La conosco bene: sta aspettando il momento giusto per dire qualcosa che le gira in testa.

Penso di sapere cosa ma comunque non devo aspettare molto.

“Alloraaaaaa” dice all’improvviso, rompendo il silenzio “torniamo a parlare di cose serie?”

Prima che possa risponderle Skippy salta in avanti con un piccolo balzo e si sistema sulle gambe di Veronika, incrociando le braccia mentre mi osserva.

Sorrido “Ma quindi è tutto un complotto? Stavate aspettando di essere lontane dal giro turistico per tornare all’attacco?”

Veronika sorride “Ti abbiamo fatto vedere le cose che volevi tanto osservare dall’alto. Ora tieni pure il tuo scetticismo per un po’” dice, scrollando le spalle. “Ma sentimi bene…”

Sospiro con esagerazione, come se stessi per ascoltare una teoria improbabile, anche se in realtà sono curioso di sapere dove vuole arrivare.

Lei prende il pezzo di stoffa con il simbolo che abbiamo trovato e lo indica con il dito.

“Okay, quindi?”

“Quindi questo simbolo non è casuale.”

Veronika si ferma un attimo, come se stesse cercando le parole giuste. Poi, con un gesto deciso, rigira il tessuto e lo inclina leggermente verso la luce del finestrino.

“E non c’è solo il simbolo” continua. “Ricordi la scritta?”

Ricordo le parole spezzate, incomplete ma con un senso chiaro:

“…su tempus… nos eramus… su tempus… torneremos…”

Veronika incrocia le braccia. “Nel tempo eravamo, nel tempo torneremo. Se lo colleghiamo al simbolo… potrebbe essere un riferimento ai Giganti.”

Sollevo un sopracciglio. “Ai Giganti di Mont’e Prama?

Lei annuisce con convinzione. “Alcuni sostengono che la loro civiltà sia molto più antica di quanto pensiamo. E se questo fosse un indizio che qualcuno di loro è sopravvissuto più a lungo?”

Mi appoggio allo schienale e sorridendo le chiedo “Se erano giganti… perché la scritta è così piccola?”

Skippy sbuffa e si gira di scatto, la coda che si muove seccata. È chiaro: per lei sono senza speranza.

Veronika sospira. “Sei insopportabile quando fai così.”

Rido. “Mi stai dicendo che dei colossi alti tre metri incidevano testi in miniatura?”

Lei mi lancia un’occhiataccia, poi guarda il pezzo di stoffa, come se cercasse una nuova chiave di lettura. “Forse non erano loro a scriverlo… ma qualcuno che conosceva la loro storia.”

Ora ha la mia attenzione, anche se cerco di non darlo a vedere.

“Stai dicendo che potremmo trovare un altro pezzo di questo puzzle in questo sito archeologico che vuoi visitare?”

“Non lo sto dicendo io. Lo dice la storia. Lo dicono queste immagini.” Avvicina di nuovo la stoffa allo schermo, sovrapponendola all’immagine.

Skippy batte la zampa prima contro la stoffa, poi contro il tablet, approvando con entusiasmo la teoria di Veronika.

Rido e scuoto la testa. “E così siamo passati dal viaggio turistico alla caccia al tesoro?”

Veronika si gira verso di me, gli occhi brillano. “No, Camillo. Siamo passati dal turismo all’indagine storica. Questa potrebbe essere una scoperta importante.”

Guardo di nuovo l’immagine sul tablet, poi osservo la costa sotto di noi. Santa Teresa di Gallura è ormai vicina.

Inspiro profondamente. Non so ancora cosa stiamo cercando ma so che ormai non posso più ignorarlo. Il loro entusiasmo è contagioso… e ora sono dentro anch’io.

Ogni indizio è una porta sul passato ma solo chi sa guardare oltre può trovarne la chiave.

Santa Teresa di Gallura vista dal Cessna (foto flight simulator 2024)

Santa Teresa di Gallura

Arriviamo a Santa Teresa di Gallura, adagiata sulla costa settentrionale della Sardegna. Il porto, con le sue barche ordinate e le strade perfettamente allineate danno alla cittadina un’aria quasi ligure, un dettaglio che si nota subito dall’alto.

Guardo di sfuggita Veronika. Sorride, gli occhi fissi sulla terra che si avvicina, il tablet ancora tra le mani, come se già stesse immaginando cosa troveremo laggiù.

Skippy, invece, è decisamente meno discreta. È appoggiata con tutto il musetto al vetro, la coda che oscilla con impazienza. Il messaggio è chiaro: atterriamo e muoviamoci.

Sorrido. Anche se non lo ammetterò mai, mi stanno contagiando.

Un ultimo sguardo al porto, poi mi dirigo verso la pista che è più davanti. Mi concentro sulla discesa. La pista è un semplice campo volo con fondo in erba ed fatico ad individuarla. Niente cemento o asfalto questa volta, nulla che non abbia già affrontato ma richiede comunque più attenzione di un normale atterraggio su pista.

Finalmente la vedo, effettuo una virata e abbasso la velocità, il muso del Cessna si inclina dolcemente mentre allineo l’aereo alla traiettoria finale. L’erba si avvicina rapidamente.

Le ruote toccano terra con un leggero sobbalzo e il rumore dell’erba sotto di noi è più ovattato rispetto all’asfalto. Rallento con delicatezza mentre il velivolo scivola sulla superficie naturale, lasciando una scia sottile tra i fili d’erba mossi dal vento.

Silenzio.

Poi, un suono inconfondibile:

Skippy che stacca le cinture con un gesto deciso, pronta a scattare fuori anche se l’aereo è ancora in movimento.

Veronika ridacchia. “Siamo sicuri che riesca ad aspettare che spegniamo il motore?”

Skippy si gira verso di me, sbuffa e incrocia le braccia, chiaramente esasperata dalla nostra lentezza.

Scuoto la testa, ridendo. Spengo il motore, tiro i freni di parcheggio e mi giro di nuovo verso di lei.

“Adesso puoi.”

Neanche il tempo di finire la frase. Veronika allunga la mano, la portiera si apre di scatto e Skippy schizza fuori come un proiettile.

Io e Veronika ci guardiamo.

Sospiro, scuoto la testa e slaccio la cintura.

“Bene… immagino che la nostra esplorazione sia ufficialmente iniziata.”

l’avventura continua anche quando mettiamo piede a terra.

Atterrati a Santa Teresa di Gallura (foto flight simulator 2024)

10 + Diario di Viaggio Bonifacio

Bonifacio: tra cielo e terra

Il taxi ci lascia poco fuori dalla città vecchia di Bonifacio. L’aria della sera è piacevolmente fresca e il profumo del mare si mescola a quello della pietra scaldata dal sole. Bonifacio ci accoglie nella sua veste notturna, con le mura illuminate che si stagliano contro il cielo ormai scuro.

«Che atmosfera incredibile» sussurra Veronika mentre attraversiamo la porta d’ingresso della cittadella.

Passeggiamo lentamente lungo le stradine acciottolate, zainetti in spalla. Il silenzio è interrotto solo da qualche passo frettoloso e dalle voci soffuse di chi si gode la serata nei piccoli bistrot incastonati tra le mura. Da quassù il mare è una distesa scura, appena increspata dalla brezza.

«Vederla da terra è completamente diverso» dico, osservando il profilo della città che si allunga fino al bordo della falesia.

Veronika annuisce. «Dal cielo sembrava sospesa tra le onde, quasi un’illusione. Qui invece la senti… solida, antica.»

Attraversiamo la Rue des Deux Empereurs e saliamo verso il Belvédère de la Manichella, il punto panoramico che si affaccia sulle Bocche di Bonifacio. Il mare sotto di noi è un abisso scuro, appena spezzato dai riflessi della luna. Lontano, all’orizzonte, si intravede la sagoma della Sardegna.

«Incredibile. Di giorno sarà tutta un’altra storia. Alcuni posti rivelano il loro vero volto solo con il sole.» sussurra Veronika.

Il vento porta il rumore delle onde che si infrangono contro la base delle falesie, mentre attorno a noi la città si avvolge nei suoi secoli di storie. Poi, all’improvviso, il suono di un messaggio rompe il silenzio. Veronika fruga nello zaino e tira fuori il telefono.

«Irina mi ha scritto» dice, scorrendo il messaggio.

La osservo mentre le dita si muovono veloci sulla tastiera. È da un po’ che non la sentiamo, ma in qualche modo, da quando l’abbiamo conosciuta a Siena, è rimasta con noi.

«Ha ricevuto la cartolina che le ho mandato dal Giglio» continua Veronika, senza staccare gli occhi dallo schermo. «Le ha fatto davvero piacere. Dice che è stata una sorpresa inaspettata, che le ha strappato un sorriso.» Si ferma un attimo, poi aggiunge con un leggero sorriso: «Mi ha chiesto di spedirgliene altre. Dice che è un bel modo di viaggiare con noi, anche solo a distanza.»

Annuisco. «Te l’avevo detto che l’avrebbe apprezzato.»

Veronika rimane in silenzio per qualche secondo, poi scrive ancora qualcosa sul telefono prima di riporlo nello zaino.

«Le ho detto che la richiamerò in questi giorni, quando saremo un po’ più tranquilli qui a Bonifacio

«Giusto. Abbiamo qualche giorno prima di ripartire visto che anche il nostro aereo ha bisogno di attenzioni. È stato un compagno perfetto in questo viaggio e merita cura prima di continuare per le prossime tappe.»

Lei annuisce, poi torna a osservare il mare scuro sotto di noi, come se volesse già immaginare la città che scopriremo con la luce del mattino.

Ogni viaggio lascia segni invisibili, ma quelli più profondi sono nelle persone che incontriamo e nei legami che portiamo con noi, anche a distanza.

Bonifacio vista dall’alto (foto 101-zone.com)

Bonifacio di giorno: tra luce e racconti

Ci svegliamo con la luce dorata del mattino che filtra attraverso le persiane della nostra stanza. L’aria profuma di salsedine che si solleva dalle falesie e si mescola ai primi aromi del caffè che arrivano dalle strade sottostanti. Dopo la lunga passeggiata della sera prima, ci siamo addormentati profondamente, cullati dal silenzio di Bonifacio.

Scendiamo per le strade della cittadella e scopriamo che ora sembra completamente diversa da quella avvolta nell’ombra della notte. I vicoli sono pieni di vita, il suono dei passi sulla pietra si mescola a quello delle voci dei commercianti che sistemano le loro bancarelle.

«Sembra ancora più bella di giorno» dice Veronika mentre raggiungiamo il Belvédère de la Manichella, lo stesso punto panoramico della sera prima. Si ferma un istante, osservando il paesaggio. «Oh wow… è meglio di come immaginavo ieri sera.»

La luce del sole colpisce la falesia bianca, facendola brillare come se fosse scolpita nel marmo. Il mare si apre davanti a noi con sfumature di blu e turchese, la Sardegna sembra quasi a portata di mano.
Dopo qualche minuto in silenzio e contemplazione, decidiamo di fermarci per una colazione prima di continuare l’esplorazione. Ci sediamo in un piccolo caffè all’aperto, con tavolini in ferro battuto che si affacciano su una piazzetta acciottolata. Il profumo dei croissant appena sfornati riempie l’aria.
Veronika mescola lentamente il suo caffè, lo sguardo perso tra le case di pietra chiara. «Bonifacio l’abbiamo vista dall’alto e ora la stiamo vivendo da dentro» dice. Poi solleva lo sguardo e sorride. «Eppure, ho la sensazione che abbia ancora tanto da raccontarci.»

Le sue parole restano sospese mentre ci godiamo la quiete del mattino, il tintinnio delle tazzine, il chiacchiericcio discreto degli abitanti che iniziano la loro giornata.

Dopo la colazione, riprendiamo il cammino verso il Bastione dello Stendardo, una delle fortificazioni più imponenti della città. Le mura spesse e le feritoie raccontano di un passato in cui Bonifacio era una sentinella del Mediterraneo. Dall’alto, la vista sulle Bocche di Bonifacio è spettacolare.

«Da quassù sicuramente riuscivano a controllare ogni nave che passava» dico guardando fuori da una feritoia, sentendomi come una vecchia vedetta.

«E chissà quante storie sono passate da qui.»

A pochi passi da noi, una donna anziana è seduta su una panchina in pietra, avvolta in uno scialle color sabbia che si fonde quasi con il paesaggio. Ha la pelle segnata dal sole e un paio di occhi chiari che sembrano riflettere il mare. Sta intrecciando delle piccole reti di corda, lavorando con gesti precisi e pazienti.

Veronika si ferma a osservarla, incuriosita dal suo lavoro. «Sta riparando una rete?» le chiede con tono gentile.

La donna solleva appena lo sguardo e annuisce. «Le mani devono sempre avere qualcosa da fare, altrimenti invecchiano prima della testa» dice con un sorriso accennato.

Ci osserva per un istante, come se ci valutasse, poi indica un tratto della costa a sud della cittadella. «Vedete laggiù?»

Seguiamo la sua mano e notiamo una rientranza nella falesia, parzialmente nascosta dalle ombre della mattina.

«Quella è la Grotta di Sdragonato» continua la donna. «Da lontano sembra una semplice insenatura ma dentro c’è un’apertura nel soffitto che, vista dal mare, ha la forma perfetta della Corsica.»
Veronika spalanca gli occhi. «Davvero?»

La donna annuisce. «Ogni pescatore qui la conosce. E non è solo per la sua forma. Si dice che il vento, entrando nella grotta, produca un suono profondo, come un respiro che sale dal mare. Alcuni lo usavano per capire quando il tempo stava per cambiare.»

Scambiamo un’occhiata. Questa è una di quelle storie che sembrano fatte per questo viaggio.
«E lei lo ha mai sentito?» chiedo.

La donna sorride, annodando un’altra sezione della sua rete. «Molte volte. Ma bisogna saper ascoltare.»
Rimaniamo per qualche istante in silenzio, lasciando che le sue parole si mescolino al vento che soffia leggero. Poi la ringraziamo e riprendiamo il nostro giro, scendendo lungo il Sentiero Campu Romanilu, un percorso che segue la linea delle falesie. Qui, il vento soffia forte e il mare sotto di noi è di un blu profondo, quasi ipnotico.

Raggiungiamo la Chiesa di Santa Maria Maggiore, la più antica di Bonifacio, con il suo chiostro tranquillo che sembra fermo nel tempo. Qui ci fermiamo per un po’, lasciando che il silenzio e il suono del vento tra le colonne completino i nostri pensieri.

Bonifacio non è solo una fortezza sospesa tra mare e cielo. È una città viva, un luogo che cambia volto con la luce e con il tempo, capace di regalare emozioni diverse a ogni passo.
Veronika si appoggia al muro di pietra, osservando il cielo terso sopra di noi. «Questa città sembra non voler svelare tutto subito. Ti lascia sempre con la sensazione che ci sia ancora qualcosa da scoprire.»
Annuisco, guardando il mare all’orizzonte. Il vento soffia tra le falesie, sollevando un sussurro che sembra davvero un respiro profondo.

«Forse è per questo che riesce a farsi ricordare.»

Ci sono luoghi che non si svelano subito ma ti lasciano sempre con la sensazione che abbiano ancora qualcosa da raccontare. Bonifacio è uno di questi: un respiro sospeso tra mare e cielo che continua a farsi ascoltare.

L’anziana signora (foto Leonardo.ai)

Un momento sospeso

Le strade di Bonifacio si snodano in un intricato labirinto di vicoli stretti, scalinate improvvise e archi che si aprono tra le case di pietra. Il sole è alto nel cielo, scaldando la città con una luce dorata che si riflette sulle pareti chiare degli edifici. Skippy cammina accanto a noi, scodinzolando con il suo solito entusiasmo, esplorando ogni centimetro come se volesse imprimerlo nella memoria.

Poi, tutto accade in un istante.

Un ringhio basso rompe l’armonia del momento. Un grosso cane legato davanti a una porta sbuca improvvisamente dall’ombra e abbaia con forza. Skippy si irrigidisce, le zampe inchiodate a terra, la coda tesa. Per un attimo tutto sembra sospeso, poi il suo istinto prende il sopravvento. Scatta in avanti con un balzo, si infila tra due vicoli stretti e scompare dietro l’angolo.

«Skippy!» La mia voce rimbalza sulle pietre ma è già troppo tardi.

Veronika impallidisce. Il respiro si spezza nel petto mentre parte di corsa, gli occhi spalancati, il panico che si fa largo nel suo sguardo. Io le vado dietro, cercando di mantenere il controllo. Non può essere andata lontano. Non può.

Ci dividiamo senza bisogno di dircelo. Io corro verso il porto, lei si infila in una delle tante scalinate che salgono verso la cittadella. Veronika corre senza fermarsi, ma il respiro è spezzato dall’ansia. La vedo stringersi una mano al petto, come se volesse trattenere il cuore che le martella dentro. Ad ogni svolta, rallenta per un istante, scruta il vicolo successivo con occhi spalancati, sperando di scorgere Skippy. Poi riparte, ancora più veloce.

A un tratto si blocca di colpo. Gira su se stessa, il fiato corto. Un rumore più avanti la fa trasalire. Uno scalpiccio rapido, un’ombra che si muove tra le case.

«Skippy?»

Ma è solo un gatto che scivola veloce dietro un muretto.

La tensione nel suo volto si fa più dura. Per un attimo, il pensiero che stavolta sia davvero diversa, che non la ritroveremo, attraversa anche me. Le nostre voci risuonano tra le vie, il nome di Skippy si disperde tra i muri antichi, tra le risate dei turisti ignari e lo scalpiccio della gente che va e viene. Ogni passo è un macigno nello stomaco.

Fermiamo chiunque incrociamo. Un’anziana scuote la testa con aria gentile, un commerciante indica un vicolo senza convinzione, un bambino ci guarda incuriosito prima di scrollare le spalle. Nessuno l’ha vista. Nessuno ha notato una piccola volpe sfrecciare tra le strade.

Il tempo si allunga in modo insopportabile.

Veronika si ferma di colpo nel mezzo di una piazzetta assolata. Le mani tremano leggermente mentre si stringe ai fianchi. Il petto le si alza e abbassa troppo velocemente, come se il respiro le sfuggisse. Quando si gira verso di me, i suoi occhi sono lucidi. Per un istante sembra che stia per piangere.

«Camillo, se l’abbiamo persa davvero?»

Mi avvicino, le poggio una mano sulla spalla. «Non l’abbiamo persa. È Skippy.» Cerco di suonare sicuro ma il nodo nello stomaco si stringe ancora di più. «E Skippy va dove c’è cibo.»

Veronika scossa la testa. «E se stavolta fosse diverso? Se qualcuno l’avesse presa? O se fosse uscita dalla cittadella? Se…»

«No.» La mia voce è più ferma di quanto mi senta davvero. «Non è successo niente di tutto questo. La troveremo.»

Ma anche dentro di me inizia a insinuarsi un dubbio, un pensiero che fino a pochi minuti fa sembrava impossibile. Se questa volta non fosse solo una delle sue marachelle? Se ci fosse davvero qualcosa di cui preoccuparsi?

Poi, all’improvviso, un suono.

Risate infantili, un brusio gioioso che rimbalza sulle pietre. Un piccolo guaito familiare. Il mio cuore fa un balzo.

«Veronika…» Lei mi guarda, poi corre nella mia stessa direzione.

Sbuchiamo in una stradina laterale e la vediamo.

Skippy è seduta in mezzo a un gruppo di bambini corsi, con le orecchie abbassate e il musetto sporco di briciole. Tra le zampe tiene stretto un pezzo di pane, mentre un bambino le allunga un altro boccone ridendo.

Veronika si blocca di colpo. Si porta una mano alla bocca, chiude gli occhi come se volesse trattenere un’emozione troppo forte da gestire. Io mi passo una mano sul viso, cercando di ritrovare un minimo di compostezza.

«Skippy.» La mia voce è più morbida adesso, quasi un sospiro di sollievo.

Lei alza gli occhi, inclina la testa di lato. Ci guarda come se fossimo noi a esserci persi, non lei.

Veronika si inginocchia lentamente, ancora troppo sconvolta per parlare. Skippy abbassa il musetto, poi le si avvicina, poggiando delicatamente la testa contro la sua spalla.

Non è un gesto qualunque. È una richiesta di scusa.

Veronika la stringe forte, affondando le dita nel suo pelo morbido. «Non farmi più una cosa del genere…» sussurra, la voce ancora tremante.

Skippy non si muove. Resta lì, immobile, come se sapesse esattamente quanto l’ha fatta preoccupare.

Finalmente, dopo un lungo momento, Veronika si stacca leggermente. Io prendo un respiro profondo e scuoto la testa. «Mi hai fatto prendere un infarto, piccola monella.»

Skippy mi lancia uno sguardo innocente, poi si stringe un po’ di più contro Veronika, che ancora la tiene stretta tra le braccia, come se volesse assicurarsi che non svanisca di nuovo.

Poi Veronika nota qualcosa tra le zampe di Skippy.

Un piccolo pezzo di corda marinara logora, consumata dal tempo e dal sale. Lo prende con delicatezza, scorrendo le dita sul nodo al centro, fatto in fretta, come se fosse stato annodato da mani piccole e veloci. Forse uno dei bambini gliel’ha infilato per gioco o forse lo ha trovato per terra, raccolto chissà dove.

Guardo il piccolo intreccio, le sue fibre ancora resistenti nonostante l’usura. Un nodo. Un legame che tiene, anche quando sembra logorato.

«È perfetto» dico. «Un nodo per ricordarci che, qualunque cosa accada, ci ritroveremo sempre.»

Skippy si accoccola meglio tra le braccia di Veronika, lasciandosi stringere ancora un istante. Salutiamo i bambini, li ringraziamo e finalmente riprendiamo la strada.

Bonifacio è la stessa di stamattina, eppure mi sembra diversa. Forse perché adesso sappiamo cosa significa davvero perdere qualcosa di prezioso.

Forse perché non importa quante avventure ci aspettano… finché siamo insieme, sarà sempre un viaggio straordinario.

Ci si può perdere in mille strade, tra dubbi e timori, ma i veri legami restano, come nodi che il tempo logora senza mai sciogliere del tutto.

la cordina (foto Dall-E)

L’orizzonte davanti a noi

Cercando di calmare il cuore che ancora batteva pesantemente nel petto, ci siamo ritrovati a camminare senza una vera direzione, seguendo il suono del vento e delle onde. I passi ci hanno portato fino a quello che scopriamo essere il Cimitero Marino di Bonifacio. È un luogo sospeso tra cielo e mare, in cima alle falesie, con le sue cappelle bianche che sembrano piccole case eterne rivolte verso l’orizzonte. Qui tutto è avvolto da un silenzio solenne, rotto solo dal vento che scivola tra le pietre e dal respiro del Mediterraneo che si infrange sulla roccia sottostante.

Ci sediamo su una panchina, lasciando che l’aria salmastra ci riempia i polmoni. Il sole inizia la sua lenta discesa. È uno di quei momenti in cui il tempo sembra sospendersi, in cui ogni pensiero si allinea con il ritmo della natura, come se fosse stato sempre lì, in attesa di essere ascoltato.

Veronika osserva il cimitero, il suo sguardo si perde tra le cappelle che si affacciano sul Mediterraneo. Il vento le solleva qualche ciocca di capelli ma lei non se ne accorge, assorta in un pensiero che solo dopo un lungo istante si trasforma in parole.

«Qui i morti riposano di fronte al mare. Chissà se lo sentono ancora. Chissà se, in qualche modo, viaggiano ancora anche loro.»

La guardo, poi rivolgo gli occhi all’orizzonte. Il mare è vasto, infinito, eppure così familiare. Un confine che non separa, ma collega.

«Forse sì» rispondo piano. «O forse sono loro a custodire tutte le storie che passano di qui.»

Lei annuisce lentamente. «In un certo senso, non si è mai fermi. Anche nella quiete, il tempo continua a scorrere, le onde continuano a modellare la roccia. Viaggiamo anche quando non ci muoviamo.»

Le sue parole si dissolvono nel vento e rimangono sospese nell’aria, come se Bonifacio stessa le avesse accolte, riconoscendone il senso profondo.

Mi giro verso di lei. «Siamo diversi da quando abbiamo lasciato Bologna

Non lo dico per dire, lo sento nel profondo. Siamo partiti con la voglia di esplorare il mondo, e invece il mondo sta esplorando noi. Ci ha messi alla prova, ci ha sorpresi, ci ha lasciato addosso le sue storie, i suoi volti, le sue cicatrici.

Veronika annuisce, il riflesso del sole nei suoi occhi chiari. «E lo saremo ancora. Ci siamo lasciati modellare da ciò che abbiamo visto e dalle persone che abbiamo incontrato. E continueremo a cambiare.»

Ci fermiamo ancora un attimo, lasciando che il senso di tutto questo viaggio si depositi dentro di noi, come la risacca che leviga la pietra, lenta ma inarrestabile.

Davanti a noi, la Sardegna è un’ombra appena accennata contro il cielo infuocato dal tramonto. Un’altra terra che ci aspetta. Un’altra avventura da vivere.

Ci alziamo senza fretta, con la consapevolezza che questa volta non ripartiremo subito. Bonifacio ci ospiterà ancora per qualche giorno. Il nostro aereo ha bisogno di attenzioni, così come noi abbiamo bisogno di lasciare sedimentare tutto quello che questo viaggio ci ha regalato prima di riprendere il volo.

L’avventura non è finita.

L’avventura, in fondo, non finisce mai.

10 – Diario di Volo Ajaccio Bonifacio

Decollo da Ajaccio: il sole che cala sul primo capitolo di questo viaggio

Il motore ruggisce mentre il nostro Cessna accelera lungo la pista di Ajaccio. L’asfalto scorre veloce sotto di noi, poi un ultimo contatto con il suolo e siamo in aria per quest’ultimo sorvolo sulla Corsica.

Ajaccio scorre sotto di noi, avvolta nella luce calda del tramonto. Ora la guardiamo con occhi diversi.

«Non pensavo che mi sarebbe piaciuta così tanto» dice Veronika, con lo sguardo perso lungo la costa.

«Pensavi fosse solo Napoleone

Lei annuisce lentamente. «Sì… invece ho capito che qui non si vive solo nel suo passato. C’è qualcosa di più profondo, qualcosa che non si vede subito.»

Viro dolcemente seguendo il promontorio. «L’orgoglio corso?»

Veronika resta in silenzio un istante, poi scuote la testa. «Non solo. È il modo in cui convivono con la loro storia. La Corsica è come il vento che soffia sulle sue montagne. Non si lascia mai davvero catturare, cambia direzione, si adatta ma non smette mai di esistere. C’è chi lo segue e chi cerca di opporsi ma è sempre lì, a ricordarti che non puoi ignorarlo.» Si stringe nelle spalle. «Non è una battaglia politica, è un’identità che non smette mai di interrogarsi.»

La osservo un istante. «Forse è per questo che ha lasciato il segno anche su di me.»

Sorvoliamo la costa, lasciandoci alle spalle la città. Il sole infiamma le onde, l’aria è ferma, il silenzio della quota amplifica ogni pensiero.

In pochi giorni abbiamo capito che la Corsica è molto più di storia e politica. È carattere, resistenza, orgoglio. È fatta di chi l’accetta e di chi la sfida, di chi resta e di chi parte. Ed è più grande della sua stessa leggenda.

Ogni luogo è più di ciò che appare. A volte basta cambiare prospettiva per scoprirne l’anima nascosta.

il Golfo di Ajaccio visto al tramonto dalla cabina del Cessna (foto flight simulator 2024)

Le Isole Sanguinarie: il destino di un popolo

Le Isole Sanguinarie emergono davanti a noi, scure e selvagge contro il bagliore del sole al tramonto. Dall’alto sembrano un avamposto dimenticato, un luogo che ha visto tempeste, naufragi e battaglie senza mai cedere al mare. Il sole incendia le loro scogliere rosse, mentre le onde le circondano in un moto perpetuo.

«Bellissimo il contrasto con il sole al tramonto» mormora Veronika.

Sorvoliamo l’arcipelago dirigendoci verso l’altra costa del golfo. Il vento è leggero, l’aria immobile. Sotto di noi, l’acqua si infrange violenta contro la pietra, come se il mare stesso cercasse di cancellare secoli di storia.

Un tempo, queste isole ospitavano monaci eremiti che cercavano qui la solitudine assoluta, lontani dal mondo e dai suoi conflitti. Più tardi, divennero un luogo di quarantena per le navi sospette di portare malattie, un confine tra il ritorno a casa e l’oblio.

«Non riesco a immaginare cosa significhi passare qui un’intera vita» dice Veronika, con lo sguardo perso sulle scogliere.

«O anche solo un inverno» rispondo. «Ci sono luoghi che sembrano nati per la solitudine. Questo è uno di quelli.»

Lei annuisce piano. «Forse è per questo che ha un fascino così forte. Sono isole ancora più isola della Corsica stessa.»

L’osservazione mi colpisce. È vero. La Corsica è sempre stata una terra di passaggio, conquistata, contesa, costretta a trovare un’identità tra culture e potenze diverse. Ma queste isole… queste sono rimaste inaccessibili, isolate nel loro destino.

«Pensi che certe battaglie finiscano mai davvero?» chiede all’improvviso Veronika.

Le lancio un’occhiata. Non parla solo delle isole, né solo della Corsica.

«Credo che certe cose rimangano incise nelle persone, come il vento incide queste rocce» rispondo. «A volte si dimenticano, a volte si trasformano ma non spariscono mai.»

L’indipendenza non è mai stata solo una questione politica ma un sentimento radicato nell’anima di un popolo.

le isole Sanguinarie al tramonto (foto flight simulator 2024)

Propriano e Sartène: la giustizia e la memoria di un popolo

Un silenzio riflessivo ci avvolge mentre sorvoliamo il Golfo di Valinco dirigendoci verso la Baia di Propriano. Il porto si svela incastonato tra il mare e le colline, con le sue barche che ondeggiano placidamente. La luce del tramonto avvolge tutto, rendendo il paesaggio ancora più affascinante.

«Guarda laggiù» dice Veronika, indicando il porto di Propriano. «Un tempo, questo luogo era un crocevia per diverse civiltà: Greci, Romani, Pisani e persino Turchi hanno lasciato la loro impronta qui.» Poi continua: «Nonostante le tante invasioni, Propriano ha saputo risorgere ogni volta.»

«Difficile immaginare le battaglie che hanno segnato questa baia.» commento. «Sembra tutto così pacifico.»

«Forse il mare non dimentica. Chissà quanti segreti custodisce laggiù.» aggiunge Veronika, osservando la distesa d’acqua sotto di noi.

Poco dopo, salendo di quota, arriviamo a ridosso di Sartène, spesso definita “la più corsa delle città corse”. Veronika consulta la sua guida e sorride: «Sapevi che questo titolo è stato coniato dallo scrittore Prosper Mérimée

«Ma che cosa avrebbe di diverso dal resto dei paesi corsi?» le chiedo, incuriosito.

«Sembra che qui le tradizioni siano ancora molto sentite» risponde, poi torna a leggere. «Ad esempio, qui ogni anno, il Venerdì Santo, si tiene la processione del Catenacciu. Un uomo incappucciato percorre le vie del borgo portando una pesante croce, in segno di penitenza. Nessuno conosce la sua identità, ma si dice che sia scelto tra coloro che vogliono espiare una colpa. Una tradizione che mescola fede, mistero e una certa dose di drammaticità. Molto corsa, in effetti.»

Mentre rifletto su queste terre antiche e sulla loro capacità di resistere al tempo, sento qualcosa che mi strattona leggermente la giacca. Un richiamo dal presente… e dalla pancia di Skippy, evidentemente.

Mi giro e trovo Skippy, che mi guarda con i suoi occhi più dolci, il musetto leggermente inclinato.

Alzo un sopracciglio. «Oh no… stai realmente facendo di nuovo quella faccia. Cosa vuoi? Immagino che tu abbia fame… come sempre!»

La piccola esploratrice mi colpisce con una zampa, poi alza lo sguardo, occhi enormi e imploranti. La strategia della dolcezza è iniziata.

Sospiro. «Non ci credo… Vuoi un altro canestrello

Un leggero guaito di approvazione è la sua risposta.

«Ma ne hai già mangiati prima!» esclamo divertito.

Skippy fa finta di niente e continua a fissarmi con la sua espressione innocente, mentre la coda si muove lentamente da un lato all’altro, in perfetta strategia di persuasione.

«Camillo, ti rendi conto che questa creatura sta sviluppando un piano alimentare tutto suo?» Veronika scuote la testa ridendo mentre apre lo zaino e le passa un pezzetto di biscotto.

Skippy lo afferra delicatamente tra le zampe e inizia a sgranocchiarlo con assoluta soddisfazione.

«Secondo me non è mai sazia.»

Sorridiamo mentre la nostra piccola mascotte finisce il suo dolce premio, poi torniamo a guardare la terra che scorre sotto di noi come se nulla fosse successo.

La vera giustizia non si misura dalla severità delle leggi ma dall’equità con cui vengono applicate.

Propiano vista dall’alto (foto flight simulator 2024)

Porto Vecchio. La Corsica che cambia volto

Le montagne davanti a noi si stringono in un passaggio stretto, quasi volessero metterci alla prova prima di concederci l’accesso alla costa orientale. Superiamo il valico con una leggera turbolenza e all’improvviso il paesaggio si apre: il Golfo di Porto Vecchio si svela all’orizzonte, con colori stupendi tra il viola e l’azzurro.

Inizio la discesa graduale, tracciando una dolce virata sopra il golfo.

«Ma ti rendi conto di come varia quest’isola ogni volo?» dico, lasciandomi sfuggire un sorriso.

Veronika osserva il panorama con occhi incantati. «Sembra quasi di attraversare un intero continente in pochi chilometri.»

Sorvoliamo il golfo, un tempo un crocevia conteso da chiunque volesse il controllo del Mediterraneo. Oggi Porto Vecchio è una delle destinazioni più frequentate della Corsica, un perfetto equilibrio tra mare, storia e modernità.

«Sai che il nome Porto Vecchio potrebbe ingannare?» chiede Veronika, mentre scorre la guida.

«Dimmi che non è perché c’è un Porto Nuovo nascosto da qualche parte.»

Lei ride. «No, il nome risale addirittura all’epoca romana, quando la città era conosciuta come Portus Syracusanus. Il ‘vecchio’ non indica un porto sostituito ma uno che ha saputo resistere al tempo.»

«Beh, sembra che abbia retto piuttosto bene.»

«Sì, oggi è un mix perfetto tra storia e turismo. Hanno boutique di lusso accanto a vecchie saline abbandonate, ma se ti addentri nei vicoli trovi ancora l’anima autentica della Corsica.»

«Non sembra affatto ‘vecchio’ infatti, anzi» commento.

«Negli ultimi decenni è diventato una meta di lusso» aggiunge Veronika. «Ma ha ancora tracce del suo passato: le saline, ad esempio. Un tempo rappresentavano una delle principali fonti di ricchezza della città.»

«E oggi?»

«Sono ancora lì ma non più sfruttate come un tempo. Un tempo l’industria del sale rappresentava una delle risorse più importanti della regione ma, con il tempo, la produzione è stata abbandonata, complice la concorrenza di altre saline più moderne e il calo della domanda. Oggi restano un luogo suggestivo, soprattutto al tramonto, quando l’acqua nelle vasche riflette il cielo e trasforma il paesaggio in una tavolozza di colori.»

Proseguiamo lungo la costa, lasciandoci Porto Vecchio alle spalle. La Baia di Santa Giulia, con la sua laguna, ci sorprende illuminata dalla luce del tramonto che la rende ancora più spettacolare.

«Guarda che colori!» esclama Veronika. «Mare tropicale ma con l’anima selvaggia della Corsica. E pensare che poco fa eravamo alle Isole Sanguinarie a parlare di storia e rivoluzioni. Qui sembra un altro mondo.»

«E invece è sempre la stessa isola» dico, sorvolando un’altra perla nascosta che cattura la nostra attenzione: Rondinara, con la sua forma perfetta, un anfiteatro naturale di sabbia e mare cristallino. Da quassù, la sua simmetria è ancora più evidente, come se la natura l’avesse scolpita con precisione millimetrica.

«Che spettacolo» dice Veronika, con un sorriso. «Non smetto mai di sorprendermi.»

Sorrido, mantenendo l’assetto mentre proseguiamo verso la nostra ultima tappa. La Corsica continua a rivelarsi sotto di noi, selvaggia e mutevole, capace di stupire anche quando credi di averla già capita.

La Corsica non è un’isola, è molte isole in una. Ti porta dalle vette alle spiagge, dalla storia antica alla natura selvaggia senza mai perdere la sua identità.

Rondinara vista dall’alto (foto flight simulator 2024)

Verso Bonifacio: un ingresso spettacolare

Superiamo l’insenatura del Golfo di Sant’Amanza, un’ampia baia incastonata tra le scogliere e la macchia mediterranea. Il sole basso sul mare trasforma ogni increspatura in un bagliore dorato, come se il paesaggio stesso stesse trattenendo il respiro prima del tramonto.

Veronika segue il panorama in silenzio, lo sguardo incollato al finestrino. «Sembra un quadro con questa luce» mormora piano.

«Sono curioso di vedere Bonifacio» le rispondo, virando dolcemente.

Dall’entroterra, la città è ancora invisibile. Solo un altopiano brullo e scosceso si allunga davanti a noi. E poi, d’un tratto, la terra scompare nel vuoto e Bonifacio si rivela, come un miraggio sospeso sull’abisso.

Il colpo d’occhio è incredibile. La città si erge sulla cima di una falesia bianca, sospesa nel nulla, come se sfidasse la gravità. Le case sembrano abbracciarsi l’una all’altra, affacciandosi sull’abisso con un’audacia silenziosa. Sotto di noi, il mare si insinua nella scogliera, scavando il profondo fiordo naturale del porto. È una visione da lasciare senza fiato.

Veronika lo trattiene. «Mamma mia…»

Sorvoliamo la città a bassa quota, lasciandoci avvolgere dal suo fascino antico. Il sole incendia le falesie di un arancio infuocato, mentre le mura medievali si allungano lungo il bordo del precipizio, come se fossero ancora pronte a respingere un assedio.

«Questo posto ha visto secoli di battaglie,» dico mentre lasciamo scorrere Bonifacio sotto di noi. «Genovesi, Pisani, Aragonesi, Francesi… tutti l’hanno voluta.»

Veronika annuisce. «E non è difficile capire perché. Sembra una fortezza costruita dal mare.»

«Lo è stata per secoli» confermo. «Da qui, controllavano tutto il passaggio tra Corsica e Sardegna. Le Bocche di Bonifacio sono sempre state strategiche. Un crocevia tra popoli, commerci e guerre.»

Veronika nota, nella falesia, una linea ben visibile nella roccia. Una scala ripida serpeggia lungo la parete bianca, scendendo fino al mare.

«E quella cos’è?» chiede Veronika, aguzzando la vista.

«La Scala del Re d’Aragona» rispondo. «Uno dei grandi misteri di Bonifacio

Lei si sporge leggermente per vedere meglio. «Scavata nella roccia? Ma come?»

Sorrido. «Dipende a chi lo chiedi. Ho letto che la leggenda dice fu realizzata in una sola notte dai soldati aragonesi durante l’assedio del 1420. La realtà è più semplice: probabilmente esisteva già prima, usata dai monaci per raggiungere una sorgente nascosta nella grotta sottostante.»

Veronika ride. «Dunque una versione eroica e una pratica. Preferisco la prima.»

«Ovviamente» rispondo ridendo anch’io. «Ma pensa alla scena: soldati che scavano febbrilmente mentre le guardie genovesi li respingono dall’alto… roba da film.»

Sorvoliamo la città, godendoci lo spettacolo della luce che incendia la falesia e fa brillare il mare.

«Questo è uno degli arrivi più belli di tutto il viaggio» dice Veronika, scattando una foto. «Direi che non potevamo scegliere un finale migliore per questo viaggio sopra la Corsica

Regolando la rotta verso nord per l’atterraggio, aggiungo: «E non è ancora finita.»

Alcuni luoghi raccontano storie di battaglie e conquiste, altri parlano con la loro bellezza. Bonifacio fa entrambe le cose, scolpendo il tempo nella pietra delle sue scogliere.

Bonifacio e le sue falesie bianche al tramonto (foto flight simulator 2024)

Atterraggio a Figari

La pista di Figari Sud-Corse è ormai in vista, un nastro d’asfalto immerso tra la macchia mediterranea e le colline che digradano verso il mare. L’ultima luce del tramonto sfuma oltre l’orizzonte, Veronika abbassa la fotocamera e si rilassa sul sedile, con un’espressione serena.

«Questa tappa è stata incredibile» dice piano, quasi a sé stessa.

Abbasso i flap, riduco la velocità e allineo il Cessna all’asse di atterraggio. Il motore ruggisce piano mentre tocchiamo terra con dolcezza, il carrello sfiorando la pista senza scosse. Un atterraggio perfetto, come a sigillare questo volo con la giusta chiusura.

Rallento e porto l’aereo fino all’area di sosta. Spengo i motori e nella cabina cala un silenzio ovattato, rotto solo dal ticchettio del metallo che si raffredda. È un momento sospeso, come se anche l’aereo sapesse che qualcosa si è appena concluso.

Veronika si volta verso di me con un sorriso. «Non vedo l’ora di passeggiare per Bonifacio

Sorrido anch’io. «Ogni luogo racconta una storia diversa quando lo tocchi con i piedi, e non solo con gli occhi. Ora è il momento di ascoltare la voce di Bonifacio

Ogni atterraggio segna una fine ma è solo la premessa per il prossimo decollo. Il viaggio non è mai davvero finito.

09 + Diario di Viaggio

Arrivo ad Ajaccio

Non appena scendiamo dall’aereo, una leggera brezza porta con sé il profumo della salsedine, mescolato a quello più secco della macchia mediterranea. Saliamo su un taxi diretto verso il centro. L’auto lascia l’aeroporto Napoléon Bonaparte e si immette sulla strada che costeggia la baia, offrendo scorci improvvisi sul mare.

L’autista, un uomo sulla quarantina con la pelle bruciata dal sole e un accento corso marcato, guida con la calma di chi è abituato al ritmo lento dell’isola. Dopo qualche minuto di silenzio, la mia curiosità ha il sopravvento.

«Ajaccio… è un nome particolare. Da dove viene?» chiedo.

L’uomo sorride appena, come se si aspettasse la domanda. «Eh, bella domanda!» risponde, senza distogliere lo sguardo dalla strada. «Ci sono tante teorie ma nessuno lo sa con certezza. Alcuni dicono che venga dal greco Agation, che significa ‘buon porto’. Sarebbe un nome antico, legato ai primi insediamenti della zona.»

Veronika, seduta accanto a me, si inserisce nella conversazione. «Ho letto anche che potrebbe derivare da Aiace, l’eroe greco.»

L’autista annuisce. «Sì, c’è anche questa ipotesi. Un tempo si diceva che Ajaccio fosse stata fondata dai Greci ma non ci sono prove certe. Poi c’è chi sostiene che il nome venga da una parola corsa molto antica, che oggi è andata perduta.»

Osservo la città ormai vicina. Un traghetto in arrivo, probabilmente dalla Francia, sta lasciando la baia con una scia bianca sulle onde. Il porto, pieno di barche a vela e pescherecci, brilla sotto il sole. Sul lungomare i caffè all’aperto sono animati da turisti e locali che si godono la mattina con un caffè o un bicchiere di vino.

L’autista continua stringendosi nelle spalle con un sorriso. «Ajaccio è… un po’ corsa, un po’ francese, un po’ greca… ma sempre con il sole e il mare a farle da padroni.»

Poco dopo, il taxi si ferma lungo Boulevard du Roi Jérôme, proprio accanto al mercato cittadino. Davanti a noi il vociare allegro dei venditori riempie l’aria, i profumi delle spezie, del formaggio e del pesce fresco si mescolano nell’atmosfera vivace del mattino.

«Ecco, signori» dice l’autista, voltandosi verso di noi. «Benvenuti ad Ajaccio

Ogni città ha il suo cuore e la sua anima ma Ajaccio sembra aver intrecciato il suo destino con il mare, il sole e la storia. Qui tutto scorre lentamente, come se il tempo fosse un’eco delle onde che accarezzano la costa.

Statua di Napoleone in toga romana (foto expedia.it)

La casa di Napoleone

Dopo aver salutato l’autista, ci incamminiamo nelle strade del centro storico di Ajaccio. L’aria profuma di salsedine e caffè, il ritmo lento ci avvolge fin da subito. Decidiamo di visitare la Maison Bonaparte, che non è lontana. Seguiamo una via stretta fino a una piazzetta tranquilla, dove l’edificio si mimetizza tra le altre abitazioni. È sobrio, quasi anonimo, come se volesse nascondere il suo passato.

«Questa casa apparteneva alla famiglia Bonaparte fin dal XVI secolo,» dice Veronika, leggendo il pannello informativo accanto al portone in legno scuro, su cui è incastonato un piccolo stemma di famiglia. «Qui nacque Napoleone il 15 agosto 1769

Mi fermo a osservare la facciata. Nessun palazzo sontuoso, nessun ingresso trionfale. Solo una casa come tante.

«Chissà se qualcuno, vedendolo bambino correre per strada, avrebbe mai immaginato che sarebbe diventato l’imperatore di Francia» commento mentre varchiamo la soglia.

All’interno l’atmosfera è ovattata, quasi sospesa nel tempo. Le mura spesse mantengono un fresco naturale e i nostri passi risuonano leggeri sul pavimento in pietra consumato dagli anni. L’arredamento è semplice: mobili in legno scuro, ritratti di famiglia alle pareti, un grande focolare annerito dal fumo.

Ci fermiamo in una stanza con una finestra aperta sulla via sottostante. Veronika indica un piccolo scrittoio vicino alla parete.

«Si dice che Napoleone passasse ore qui a leggere» mi racconta, sfiorando il bordo del tavolo. «Sua madre, Letizia Ramolino, lo descriveva come un bambino serio che non perdeva tempo in giochi inutili.»

Inarco un sopracciglio. «Sicura? Suona un po’ come il ritratto perfetto che ci si aspetterebbe da una biografia glorificata.»

Veronika sorride. «Già, la storia è scritta dai vincitori. Magari era solo un bambino normale.»

Osservo una teca accanto allo scrittoio. Contiene una lettera scritta dal giovane Napoleone. L’inchiostro sbiadito riporta parole che parlano di ambizione ma anche di nostalgia per la sua isola.

«Pensa a quanti leader della storia sono stati ‘ricostruiti’ fin da piccoli come personaggi fuori dal comune» dico. «Come se fin dalla culla sapessero di essere destinati a qualcosa di straordinario.»

Veronika annuisce. «È la narrazione che crea il mito. Nessuno nasce imperatore.»

«Eppure, guarda dove siamo» dico, indicando la casa intorno a noi. «Per qualcuno la storia inizia davvero in una stanza come questa.»

Proseguiamo il nostro giro, passando per la sala da pranzo, dove la famiglia si riuniva ogni sera. Nell’ultima sala un grande ritratto di Letizia Ramolino domina la parete.

Veronika si ferma a leggere una targa. «Sai cosa trovo curioso?»

«Dimmi.»

«Napoleone ha conquistato mezza Europa, ma negli ultimi anni della sua vita, in esilio a Sant’Elena, parlava sempre della Corsica. Diceva che gli mancavano il sole, il mare, persino l’accento della sua gente.»

Esco dalla porta e mi fermo un attimo sulla soglia.

Forse, in fondo, nessuno si allontana mai davvero dalle proprie radici. O forse, quando tutto finisce, è proprio lì che si vuole tornare.

Ajaccio è un luogo che si racconta nei dettagli. A volte la vera bellezza non è nei monumenti ma nelle piccole storie che ogni città sussurra ai suoi visitatori.

La casa di Napoleone (foto musees-nationaux-malmaison.fr)

Il piccolo Napoleone di Skippy

Appena usciti dalla Maison Bonaparte, ci fermiamo un istante sulla soglia per lasciarci alle spalle l’atmosfera ovattata della casa. L’aria di Ajaccio, calda e vivace, ci riporta subito al presente.

Skippy, invece, sembra avere le idee chiare. Punta il muso verso una bancarella per turisti poco distante e ci si dirige con passo deciso. Ci scambiamo un’occhiata divertita e la seguiamo.

Il venditore, un uomo anziano con un cappello di paglia e un grembiule colorato, ci accoglie con un sorriso. «Ah, vedo che la vostra piccolina ha già scelto» dice indicando una piccola statuina di Napoleone bambino, vestito con l’uniforme da generale che indosserà anni dopo nei celebri ritratti ufficiali.

Il contrasto tra il volto infantile e l’abbigliamento severo mi strappa un sorriso. «È perfetta. Un Napoleone in miniatura che gioca a fare l’imperatore.»

«Dicono che la grandezza si veda fin da piccoli… O forse è la storia che ama raccontarla così.» commenta il venditore con un sorriso malizioso.

Pago mentre Veronika osserva il piccolo Napoleone con curiosità. «Curioso come a volte si crei un’icona prima ancora che esista il personaggio» dice.

«Già, e Skippy ha scelto proprio bene» rispondo, guardandola stringere il suo nuovo tesoro con orgoglio.

il piccolo Napoleone di Skippy (foto Dall’-E)

Il destino di un’eredità

Ci incamminiamo per le strade della città, lasciandoci trasportare dal ritmo lento di Ajaccio. L’aria del primo pomeriggio è tiepida, carica del profumo di spezie che arrivano dal mercato vicino.

Troviamo una panchina in una piazzetta tranquilla, sotto l’ombra leggera di un platano. Decidiamo di fermarci un attimo, lasciando vagare lo sguardo sulla città.

«Sai che qui esiste una strada che si chiama Rue Roi de Rome?» dice Veronika, sfogliando la guida.

«Il Re di Roma… il figlio di Napoleone?» chiedo, cercando di ricordare qualcosa di quel nome che suona più simbolico che reale.

Lei annuisce. «Sì, Napoleone Francesco, suo unico figlio legittimo. Lo fece nascere con un titolo grandioso ma il destino non gli concesse mai il trono.»

Veronika continua a leggere mentre si sistema meglio sulla seduta. «Napoleone voleva creare una dinastia e quando nacque suo figlio nel 1811, lo dichiarò subito Re di Roma, per legarlo alla grandezza dell’antico Impero Romano. Ciò che doveva essere l’inizio di una nuova dinastia si trasformò però presto in un capitolo dimenticato della storia.»

Mi appoggio allo schienale, incuriosito. «Raccontamela, ti prego.»

«Quando Napoleone fu sconfitto e mandato in esilio sull’Elba, il piccolo Napoleone Francesco aveva solo tre anni. Nel 1815, dopo la disfatta di Waterloo, fu portato a Vienna, lontano dalla Francia e crebbe sotto la protezione dell’imperatore austriaco, suo nonno materno. Gli cambiarono il nome, la lingua, perfino l’identità. Doveva essere un Bonaparte, ma divenne un Asburgo. Gli vietarono persino di parlare francese.»

Faccio scorrere lo sguardo sulla strada davanti a noi, immaginando quel bambino che era nato con la promessa di un impero e si ritrovò invece prigioniero della storia.

«Quindi è cresciuto in Austria. Che cosa ne è stato di lui?»

Veronika sfoglia ancora qualche pagina. «Morì giovane, a soli 21 anni, di tubercolosi. Isolato, malato e con la consapevolezza di essere stato una pedina in un gioco molto più grande di lui.»

Resto in silenzio un momento. «Non è paradossale? Suo padre ha riscritto il destino dell’Europa e lui è stato cancellato dalla storia prima ancora di avere una possibilità. Forse è il destino di chi nasce con un nome troppo grande. A volte il peso dell’eredità è più forte della possibilità di scrivere la propria storia.»

Veronika chiude la guida e incrocia le braccia. «Spesso chi eredita una grandezza non è capace di portarla avanti. Forse perché non ha lottato per ottenerla. Napoleone si è costruito da solo, è partito da un’isola piccola come questa e ha conquistato un continente. Suo figlio, invece, è nato con tutto e non ha potuto fare niente.»

«È un classico» commento. «La prima generazione costruisce, la seconda mantiene, la terza distrugge.»

Lei annuisce. «Ed è successo anche con la famiglia Bonaparte. Dopo Napoleone Francesco, ci fu un altro Napoleone, il terzo, che riuscì a diventare imperatore. Un ultimo tentativo di riportare in vita un’epoca che non esisteva più. Tuttavia il suo regno finì con una guerra disastrosa e la dinastia sparì.»

«E oggi? Ci sono ancora discendenti?»

Veronika scorre con il pollice sullo schermo, poi solleva lo sguardo con un sorriso leggermente sorpreso.

«Sembra che il discendente attuale sia Jean-Christophe Napoléon, non è un generale ma un banchiere in Svizzera. Non comanda eserciti ma gestisce investimenti. Il potere cambia volto con i secoli.»

«Forse è meglio così» rifletto. «Forse governare un impero oggi non significa più conquistare terre, ma gestire capitali.»

Lei sorride. «I tempi cambiano. Pensa a quanto può essere pesante avere quel cognome. Essere l’erede di un uomo che ha lasciato un’impronta nella storia.»

Incrocio le mani dietro la testa e guardo il cielo limpido sopra di noi. Forse il peso di un’eredità è proprio questo: non poter mai essere semplicemente sé stessi.

Veronika annuisce, osservando per un istante la strada davanti a noi, poi mi lancia uno sguardo complice.

«Andiamo?»

Sorrido, stirandomi le braccia mentre riprendiamo a camminare.

Mentre ci alziamo, il sole inizia a scendere, allungando le ombre lungo la Rue Roi de Rome. Ajaccio è una città che conserva le sue memorie, ma il tempo, come sempre, continua ad andare avanti. E forse, in fondo, ogni città vive con i suoi fantasmi, alcuni più ingombranti di altri.

Una corsa tra le Bancarelle

Riprendiamo a camminare tra le vie di Ajaccio seguendo il richiamo del vociare che si fa più intenso. Il mercato cittadino si svela poco a poco: un’esplosione di colori e profumi, con bancarelle colme di frutta succosa, spezie aromatiche, formaggi stagionati e dolci tradizionali.

All’improvviso Skippy scatta in avanti, dribblando con agilità tra le gambe dei passanti e sgusciando tra due bancarelle come un’ombra fulminea.

«Ehi, dove credi di andare?!» esclamo, mentre lei scompare in mezzo alla folla.

Ci infiliamo rapidamente tra la gente, cercando con lo sguardo la nostra piccola esploratrice. Per un attimo non la vediamo, poi finalmente la troviamo, seduta composta accanto a un banco che espone una grande cesta di canestrelli.

Il venditore, un uomo sulla cinquantina con un grembiule bianco e una barba curata, ci osserva ridendo. «Mi sa che la vostra amica è una vera intenditrice.»

Skippy sbatte le palpebre con aria innocente, come se niente fosse. Ma il sottile strato di zucchero sul suo musetto la tradisce senza possibilità di appello. Ci guarda senza scomporsi mentre guadagna un altro biscotto che accetta con gioia, mordicchiandolo con espressione soddisfatta.

Mentre ridiamo della scena, il venditore prende un pezzo di brocciu fresco e ce lo porge. «Assaggiate questo.»

Sorrido. «Lo conosciamo bene, è uno dei nostri preferiti.»

«Ah sì? Ma lo avete mai provato in questo modo?»

Prende un cucchiaino, lo immerge in un barattolo di confettura di fichi e noci, poi ne spalma un velo sottile su un pezzo di brocciu prima di porgercelo.

Il sapore cambia completamente. Il dolce intenso del fico si mescola alla croccantezza della noce e alla cremosità del formaggio, creando un equilibrio perfetto.

Veronika chiude gli occhi per un istante, assaporandolo lentamente. «Non l’avevo mai provato in questo modo. È buonissimo.»

Scambiamo uno sguardo d’intesa e senza esitare acquistiamo un pezzo di brocciu e un vasetto di confettura, per la gioia di Skippy che scodinzola soddisfatta.

Il venditore ci osserva con un sorriso mentre incarta il nostro bottino, poi solleva lo sguardo con un’espressione quasi divertita. «Sapete, a volte siamo così sicuri di conoscere qualcosa solo perché l’abbiamo già visto o assaggiato… Ma basta poco, un dettaglio diverso, per scoprire un sapore che non avevamo mai notato. Bisogna sempre lasciare spazio alla sorpresa.»

L’aria è ancora satura di profumi intensi, il vociare dei venditori si mescola al suono delle onde in lontananza. Con il nostro bottino tra le mani e il sapore del brocciu ancora sulle labbra, proseguiamo senza fretta, lasciandoci trasportare dal ritmo di Ajaccio.

Mercato di Ajaccio (foto ajaccio-tourisme.com)

Street Food Corso

Ci rendiamo conto che l’assaggio del brocciu ci ha messo fame. L’idea di un pranzo veloce ma autentico ci attira più di un ristorante formale, così continuiamo a camminare per le vie di Ajaccio alla ricerca di qualcosa di semplice ma tipico.

«Qualcosa di più locale, senza troppi fronzoli» dico, mentre osserviamo i menu scritti a mano fuori dai ristoranti.

Veronika annuisce, scorrendo con lo sguardo le insegne in legno e le lavagnette nere con gessetti colorati. Poi, proprio dietro l’angolo di una strada stretta, notiamo un piccolo chiosco con una fila di persone in attesa. Il profumo che arriva da lì è irresistibile: un misto di farina tostata, formaggio fuso e spezie.

Ci avviciniamo. L’insegna recita “A Casetta Corsa”, un nome semplice ma che promette autenticità. Dietro al bancone, un uomo sulla cinquantina, con un grembiule annodato in vita, mescola con energia una densa polenta color nocciola in un grande paiolo di rame, da cui si sprigiona un aroma caldo e invitante.

«Pulenta di farina di castagne e migliacci fritti» dice l’uomo con un sorriso fiero. «Se volete provare la vera Corsica, siete nel posto giusto.»

Ci scambiamo uno sguardo e annuiamo senza esitazione.

«Uno di tutto» dico e Veronika ride.

Troviamo una panchina con vista sul porto e ci sistemiamo con un vassoio colmo di sapori corsi, il sole che si riflette sull’acqua e la brezza marina che smorza il calore del giorno.

La pulenta, fatta con farina di castagne, ha una consistenza morbida e un sapore leggermente dolce e affumicato, perfetto con le fette di prisuttu e lonzu servite accanto. Le migliacci, fragranti e leggere, nascondono un ripieno cremoso di formaggio e erbe aromatiche.

Addento un pezzo di migliacci, lasciando che il formaggio fuso si sciolga sulla lingua.

«Quefto è buoniffimo» commento a bocca piena.

Veronika sorride assaporando lentamente la polenta. «Dolce e salato insieme… interessante.»

Skippy, seduta ai nostri piedi, sta divorando con entusiasmo le frittelle che le abbiamo preso. Cerca di mantenere una certa dignità ma il modo in cui le sbriciola e le lecca con espressione estasiata la tradisce completamente.

L’aria salmastra, il sole che scalda la pelle e il sapore intenso di questa terra ci fanno assaporare ogni istante. Il porto brilla sotto la luce del giorno, il tempo sembra scorrere più lento. Restiamo così per un po’, immersi nella quiete.

Poi, con un sorriso, rompo il silenzio: «Sai cosa manca ora?»

Veronika mi guarda, sollevando un sopracciglio.

«Un caffè.»

Polenta Corsa (Dall-E)

Un caffè e un incontro che cambia tutto

Passeggiamo lungo il porto finché non troviamo un piccolo bar con tavolini all’aperto. L’atmosfera è tranquilla, perfetta per concludere il pranzo con qualcosa di forte e aromatico.

Ci sediamo e ordino un café noisette, il tipico caffè francese con un goccio di latte. Quando arriva, lo osservo un attimo: la crema dorata sulla superficie si mescola al latte in una spirale perfetta. Ne assaporo un sorso, lasciando che il gusto intenso e leggermente nocciolato risvegli i sensi.

«Buono?» chiede Veronika.

«Molto. Ha quella rotondità che a volte manca al nostro espresso» rispondo, godendomi il momento.

Accanto a noi, a un tavolino vicino, un anziano sta bevendo il suo caffè con calma, osservando la piazza con lo sguardo di chi ha visto il mondo cambiare ma non ha fretta di seguirlo. Mentre assaporo il caffè, noto che l’uomo ci osserva con un mezzo sorriso e scuote la testa con aria pensierosa, come se volesse dirci qualcosa.

Quando Skippy si mette a giocare con la statuina di Napoleone sul tavolo, lui sorride.

«Allora, anche voi siete venuti a trovare l’imperatore?» chiede, con un accento corso marcato.

Ci scambiamo uno sguardo. «In un certo senso» risponde Veronika.

L’uomo annuisce lentamente, sorseggiando il suo caffè. «Sapete… tutti vengono qui con un’idea di Napoleone. Alcuni lo vedono come un eroe, altri come un tiranno. Pochi si chiedono cosa fosse davvero per noi corsi.»

Mi incuriosisco e mi sporgo leggermente in avanti. «E per voi cos’era?»

L’anziano resta in silenzio per qualche secondo, come se riflettesse su come rispondere. Poi posa la tazzina e incrocia le mani sul tavolo.

«Era uno di noi ma non lo era più. Un figlio della Corsica ma un francese per scelta. Un uomo che ha costruito un impero ma che si è dimenticato della sua isola.»

Resto in silenzio, colpito dalla semplicità e dalla profondità di quelle parole.

Lui continua, con lo sguardo rivolto al mare. «Napoleone ha portato la Corsica nel mondo ma non ha mai riportato il mondo in Corsica. Ha lasciato Ajaccio da giovane e non si è mai più voltato indietro. Qui la gente lo rispetta, certo, ma c’è sempre stata un’ombra su di lui. Perché non ha mai fatto nulla per noi? Con tutto il potere che aveva… perché?» fa una pausa, poi continua «Oggi il suo nome è ovunque: piazze, statue, scuole. Per molti di noi, tuttavia, resta un’ombra che ci osserva dall’alto, senza mai davvero appartenere a questa terra.»

«Forse perché sapeva che non l’avrebbero mai accettato come corso» ipotizza Veronika.

L’anziano sorride, come se avesse sentito quella risposta molte volte. «O forse perché non voleva più esserlo.»

Un silenzio cade sul tavolo. Guardo la statuina di Napoleone nelle mani di Skippy. Un bambino corso vestito da imperatore. Un simbolo di qualcosa che forse non è mai esistito davvero.

L’uomo riprende il suo caffè e lo finisce in un solo sorso. Poi si alza, sistemando la sedia con calma.

«Vi auguro buon viaggio» dice. «E ricordate… la storia non è mai come ce la raccontano. È come scegliamo di vederla.»

Anziano di Ajaccio (foto leonardo.ai)

Lo osserviamo allontanarsi tra le strade di Ajaccio, lasciandoci con un pensiero che prima non avevamo.

Napoleone, l’uomo che ha cambiato il mondo, era davvero uno di loro? O era solo qualcuno che aveva imparato a essere altro?

Il sole scende lentamente sul mare. Veronika finisce il suo caffè in silenzio. Io lascio che il sapore dell’ultimo sorso mi rimanga sulla lingua, insieme alle parole di quell’uomo.

La Corsica ci ha dato una nuova prospettiva su Napoleone. E forse anche su di noi. Perché ogni viaggio, in fondo, è fatto di domande che non trovano sempre risposta ma che restano con noi come il sapore dell’ultimo sorso di caffè.

Ogni grande cambiamento ha origine in un incontro. A volte basta una parola, un gesto o un momento per deviare il corso della storia… e della nostra vita.

09 – Diario di Volo Calvi Ajaccio

Decollo da Calvi e sorvolo della cittadella

Decolliamo da Calvi, immersa nella luce dorata del primo mattino. La virata a sinistra durante la salita ci regala un’ultima occhiata alla città e alla sua cittadella imponente.

Mentre l’aereo guadagna quota, il profilo di Calvi si rimpicciolisce sotto di noi. La cittadella, che fino a pochi istanti fa sembrava un baluardo imponente, ora è solo una macchia dorata tra il mare e la terra. In volo, le distanze e i confini sembrano perdere significato. Eppure, per chi vive qui, quelle mura continuano a racchiudere secoli di storia e di identità.

«Credo mi piaccia di più con questa luce» commenta Veronika, sollevando la fotocamera per catturare l’immagine della fortezza.

Non posso fare a meno di pensare alle parole ascoltate il giorno precedente: Calvi sarebbe potuta diventare una città indipendente. In un altro tempo, in un altro contesto, il suo destino avrebbe potuto essere diverso. Un porto libero, una repubblica autonoma, forse persino un piccolo stato sul Mediterraneo. Eppure la storia ha scelto altrimenti.

Quante città, quanti popoli hanno visto le loro sorti decise da eventi fuori dal loro controllo? Un trattato firmato lontano. Una battaglia persa. Un comandante sconfitto. A volte, basta il tradimento di un alleato per cambiare il corso degli eventi per sempre.

«Pensi che il passato conti ancora così tanto per chi vive qui?» chiede Veronika, abbassando la fotocamera e osservando la cittadella che si allontana sotto di noi.

Ci penso un attimo. La Corsica ha inciso la sua storia nelle sue pietre e nei suoi villaggi. La vera domanda è: quei segni sono ancora ferite aperte o solo cicatrici? L’identità di un popolo nasce dal suo passato ma è nel presente che sceglie chi vuole diventare.

Ogni città porta con sé i segni del passato ma è la storia a decidere chi avrà la forza di restare e chi sarà costretto a cambiare rotta.

Calvi, con la sua cittadella, visto dall’alto (foto flight simulator 2024)

Sorvolo della Riserva Naturale di Scandola

Con Calvi alle nostre spalle, la costa cambia rapidamente volto. Le scogliere si innalzano come bastioni scolpiti dal vento, la terra si accende di un rosso intenso e il mare si insinua tra insenature solitarie e grotte nascoste. Dall’alto, la Riserva Naturale di Scandola sembra un luogo fuori dal tempo, plasmato da forze antiche e protetto da regole ferree.

«Patrimonio UNESCO» legge Veronika. «Qui non si può pescare, niente immersioni senza autorizzazione, niente turismo di massa. È uno dei luoghi più protetti della Corsica

Guardo le formazioni sotto di noi: guglie di roccia lavica che emergono dall’acqua come sculture, archi naturali modellati dalla pioggia e dal vento.

«Queste sono il risultato di eruzioni vulcaniche antichissime» continua Veronika. «La lava si è raffreddata creando questi pinnacoli. Sembra tutto scolpito a mano.»

Il mare turchese si incastra tra le pareti di basalto, creando contrasti mozzafiato. Solo qualche piccola barca sfiora la superficie delle acque calme, quasi a non voler disturbare l’equilibrio perfetto della riserva.

«Qui vivono specie che altrove sono scomparse» aggiunge Veronika. «Falchi pellegrini, cormorani dal ciuffo e persino qualche foca monaca… anche se è rarissimo vederne una.»

Poi abbassa la guida e osserva pensierosa il paesaggio. «A volte mi chiedo… può un posto essere davvero vissuto se nessuno può toccarlo? Proteggere significa davvero isolare?»

Non ho una risposta da darle. Le sue parole si mescolano al silenzio dell’abitacolo mentre sorvoliamo il perimetro della riserva con rispetto. La Corsica stessa, in fondo, è un po’ così: un’isola che lotta per preservare la sua identità, mentre il mondo cerca di cambiarla.

Alcuni luoghi non hanno bisogno di essere toccati per lasciare un segno. La loro bellezza basta a raccontare tutto ciò che serve sapere.

Parte della Riserva Naturale di Scandola (foto flight simulator 2024)

Sorvolo di Girolata – La Ribelle Senza Strade

«Incredibile» esclama Veronika, sollevando lo sguardo dalla guida. «Qui dice che Girolata è uno dei pochi villaggi in Europa a non avere strade. O ci arrivi in barca o devi camminare per ore tra le montagne.»

Dall’alto, la baia si rivela come un rifugio segreto tra le scogliere. Un piccolo borgo di case in pietra si stringe attorno al porticciolo, incastonato tra il mare e le montagne. Rallento per un sorvolo più lungo, lasciando che il panorama si scolpisca nella memoria. Sembra un luogo dimenticato dal tempo ma forse è il tempo ad averlo voluto proteggere.

«Non è sempre stato così tranquillo» continua Veronika. «Nel Cinquecento, questa baia era un rifugio per i pirati barbareschi. Attaccavano le navi mercantili e poi sparivano qui, protetti dalle montagne e dal mare.»

Guardo la baia con altri occhi. È facile immaginare le ombre di velieri ancorati tra le insenature, uomini armati che scaricano bottini rubati, il fuoco di sentinelle nascoste tra gli scogli.

«Alla fine i Genovesi ne ebbero abbastanza» prosegue Veronika. «Costruirono quel forte sulla collina per controllare il passaggio e fermare il traffico dei pirati.»

Sorvoliamo lentamente la fortezza. La pietra, consumata dal vento e dalla salsedine, sembra ancora pronta a resistere. Ha sconfitto i pirati, ha assistito al passaggio dei secoli ma non ha mai ceduto alla modernità. Questo villaggio ha scelto di restare isolato, di non lasciarsi cambiare dal mondo. O forse, semplicemente, il mondo non è mai riuscito a cambiarlo.

«Resistere è un atto di coraggio o solo ostinazione?» domando a bassa voce, più a me stesso che a Veronika.

Osservo il villaggio rannicchiato tra il mare e la montagna. È come se il tempo qui si fosse fermato, come se Girolata avesse scelto di restare fuori dal mondo. Forse, in un certo senso, è lo stesso spirito che anima tutta la Corsica: un’isola che resiste, che si aggrappa alle sue radici senza lasciarsi travolgere dalla modernità.

Ci sono luoghi che la storia ha cercato di cambiare ma che hanno scelto di rimanere se stessi. Girolata è uno di questi.

Girolata vista dal Cessna (foto flight simulator 2024)

Sorvolo del Golfo di Porto – La Porta delle Meraviglie

Oltre Girolata, la costa si spalanca rivelando il Golfo di Porto in tutta la sua imponenza. La baia sembra un dipinto dai contrasti perfetti: il mare turchese lambisce le scogliere di granito rosso mentre il verde intenso della macchia mediterranea si insinua tra le rocce. Spiagge stupende scorrono sotto di noi mentre avanziamo verso l’ingresso del fiordo.

«Qui dice che il Golfo di Porto è uno dei paesaggi più spettacolari della Corsica» commenta Veronika. «Anche questo è Patrimonio dell’UNESCO, un equilibrio perfetto tra spiagge, montagne e scogliere scolpite dal tempo.»

Il borgo di Porto si incastra tra le pareti rocciose di un fiordo, un minuscolo avamposto tra terra e mare. La sua torre genovese domina la costa, vigile e immobile come un guardiano antico.

Perso nell’ammirare il paesaggio, solo ora mi rendo conto di un dettaglio che non avrei dovuto trascurare. La baia è più stretta di quanto sembri dall’alto e le pareti del fiordo si chiudono rapidamente attorno a noi.

«Meglio salire» dico, senza lasciare spazio all’incertezza.

Veronika alza lo sguardo dalla guida, percependo il cambio di tono.

La gola rocciosa si stringe attorno a noi più velocemente del previsto. Per un istante, la sensazione è quasi claustrofobica: la parete rossa della scogliera scorre troppo vicina sotto l’ala, l’ombra delle rocce si allunga minacciosa sull’acqua. Spingo la manetta in avanti, il motore risponde con un rombo profondo e il velivolo inizia a salire. È un momento di sospensione, poi finalmente l’orizzonte si apre di nuovo davanti a noi.

Skippy, anche lei finora rapita dal panorama, scatta in piedi sul sedile con le zampe poggiate sul cruscotto, fissando lo schermo della navigazione con occhi sgranati. Emette un suono secco e indignato, poi batte rapidamente una zampa sulla mappa digitale, come a dire Ehi, questo dovevate vederlo prima!

Lentamente, il velivolo recupera margine. Superiamo il punto più stretto e la tensione si dissolve con l’aria più rarefatta dell’altitudine.

«Non male per una porta d’accesso alle meraviglie» dico con un respiro profondo.

Veronika mi guarda con un sorriso divertito. «Diciamo che la prossima volta controlliamo meglio la quota prima di entrare in un fiordo.»

Skippy incrocia le zampe e si lascia cadere di lato con aria teatrale, come a voler sottolineare la sua delusione per non averci salvati prima. Poi, con un piccolo sbuffo, si rannicchia nel suo posto, decidendo che la prossima volta terrà d’occhio anche noi, non solo il panorama.

Alcuni luoghi non sono solo panorami ma porte d’accesso a storie di conquiste, difese e segreti custoditi dal mare.

Cittadina di Porto (foto flight simulator 2024)

Sorvolo delle Calanche di Piana – Le Fiamme Pietrificate della Corsica

Ultimata la salita, le Calanche di Piana si dispiegano alla nostra sinistra, un labirinto di guglie rossastre che sembrano ardere sotto il sole. La roccia, scolpita dal vento e dalla pioggia, assume forme surreali: pinnacoli affilati, archi che sembrano porte verso un altro mondo, pareti verticali che precipitano a strapiombo sul mare turchese. Il contrasto tra la luce e l’ombra amplifica la sensazione di trovarsi davanti a qualcosa di irreale.

Abbasso leggermente la quota per seguire il profilo della costa, scendendo verso il paesino di Piana.

Veronika, con la fotocamera ancora tra le mani, osserva le formazioni con uno sguardo curioso. «Sai che c’è una leggenda su queste rocce?» dice, abbassando la fotocamera per un istante.

Alzo un sopracciglio. «Una leggenda? Racconta.»

Veronika assume un tono più basso, quasi teatrale. «Si dice che il diavolo si innamorò di una bellissima pastorella corsa. Cercò di conquistarla con promesse e ricchezze ma lei lo rifiutò. Allora, accecato dall’ira, maledisse la sua terra trasformandola in un deserto di pietra aspra e contorta, bruciata per l’eternità.»

Osservo il paesaggio sotto di noi. Le rocce non sono semplicemente pietra: sembrano forme inquiete, sculture di fuoco pietrificato in un istante eterno. È facile capire perché questa storia sia sopravvissuta nei secoli.

«Strana punizione» commento con un mezzo sorriso. «Questa terra maledetta è una delle più belle che abbia mai visto.»

Veronika scatta ancora qualche foto, poi annuisce. «Forse le maledizioni non funzionano sempre come dovrebbero.»

Alcune storie resistono al tempo, incise nella pietra e nel vento. Le Calanche di Piana raccontano una leggenda ma la loro bellezza è fin troppo reale.

Calanche di Piana (foto flight simulator 2024)

Sorvolo di Cargèse – Il Villaggio dalle Due Anime

Cargèse si inizia a intravedere davanti a noi, un piccolo borgo arroccato sulla costa, le case bianche e color pastello distese lungo il pendio.

«Qui dice che Cargèse è uno dei luoghi più particolari della Corsica» mi racconta Veronika mentre scorre la guida. «È stata fondata nel XVII secolo da una comunità di coloni greci in fuga dall’Impero Ottomano. Cercavano una nuova casa e la trovarono qui.»

In basso, tra i tetti e le strade strette, si distinguono due chiese costruite una di fronte all’altra. Veronika me le indica prontamente. «Ecco il segno più visibile della loro eredità» continua. «Una è cattolica latina, l’altra ortodossa greca. Per secoli hanno vissuto divisi dalla fede ma uniti dalla vita quotidiana.»

Le due chiese si guardano a pochi metri di distanza: una semplice e bianca, l’altra più elaborata, con dettagli bizantini.

«Non è stato sempre facile» aggiunge Veronika. «All’inizio i corsi e i greci si guardavano con diffidenza. C’erano tensioni, scontri, anche episodi di violenza. Poi con il tempo le due comunità si sono mescolate e oggi Cargèse è il simbolo di un’identità condivisa.»

Osservo il paesino che scorre sotto di noi. Un tempo diviso, oggi unito senza aver perso le proprie radici.

«Quindi hanno imparato davvero a convivere» commento.

Veronika chiude la guida con un sorriso. «Esatto. Questo è un esempio perfetto di come le differenze possano arricchire, invece di separare.»

Restiamo in silenzio per qualche istante, elaborando questa piccola lezione di storia e tolleranza.

Qualcosa nella storia di questo borgo continua a frullarmi in testa mentre ci allontaniamo da Cargèse. Due comunità, due culture diverse, eppure alla fine hanno trovato un equilibrio. Mi fa pensare a un altro discorso rimasto in sospeso.

«Vedi?» dico a Veronika, rompendo il silenzio. «Alla fine, l’indipendenza non è sempre una questione politica. A Cargèse non è servito un confine o un governo separato. Hanno trovato un modo per convivere, senza perdere la loro identità.»

Veronika mi osserva, incrociando le braccia. «Ma l’identità è più di una convivenza pacifica. Non è solo questione di stare insieme, è anche sentirsi parte di qualcosa di unico. Guarda la Corsica: non ha mai ottenuto l’indipendenza ma questo non ha fermato i corsi dal sentirsi diversi dai francesi

Esito per un istante prima di parlare, osservando la linea frastagliata della costa che scorre sotto di noi. La domanda mi resta in gola per qualche secondo, perché io stesso non so bene la risposta. Poi, quasi senza rendermene conto, la pronuncio comunque. «E vale la pena combattere per qualcosa che non cambia davvero la vita delle persone?»

Veronika scuote la testa con un sorriso. «No, ma la cultura, la lingua, le tradizioni sì. A volte, l’indipendenza è nel modo in cui scegli di esistere.»

Skippy, che ha seguito la conversazione con lo sguardo che si spostava tra me e Veronika, spalanca gli occhi, emette un suono acuto e poi, con un’espressione teatrale, si lancia in avanti e indica un punto a caso fuori dal finestrino, come a voler interrompere il dibattito con qualcosa di più importante.

Scoppiamo a ridere. Lei incrocia le zampe e si siede con aria soddisfatta, come se avesse appena risolto il dilemma.

Forse la risposta non è così semplice. O forse, come per Cargèse, l’identità è fatta di equilibri invisibili, più forti di qualsiasi confine.

Cargèse è la prova che le differenze non separano ma arricchiscono. Qui due mondi hanno imparato a guardarsi negli occhi e a condividere lo stesso cielo.

Cargese (foto flight simulator 2024)

Sorvolo di Ajaccio – La Città del Sole e della Storia

Superato l’ultimo promontorio, la costa si apre improvvisamente davanti a noi, rivelando la città di Ajaccio adagiata sul suo golfo. Da questa angolazione, Ajaccio sembra emergere dalla terra, con le case color ocra che si affacciano sul porto e le colline che la abbracciano alle spalle. Il sole riflesso sul mare e sui tetti regala alla scena un’atmosfera calda e vibrante.

«Ajaccio è stata fondata dai Genovesi nel 1492» racconta Veronika. «Ma la sua storia è molto più antica. Qui c’erano insediamenti romani e ancora prima popolazioni preistoriche. È sempre stata un crocevia di culture.»

Sorvoliamo il centro storico, lasciandoci guidare dai vicoli che si snodano tra palazzi eleganti e piazze alberate. Si vede chiaramente Place Foch, che spicca con la sua statua di Napoleone vestito da imperatore romano, mentre la Cattedrale di Santa Maria Assunta si distingue con la sua facciata color miele.

Cerchiamo con lo sguardo la casa natale di Napoleone, nascosta tra le vie della città, ma non la individuiamo. Un pensiero, però, mi sfiora mentre osservo le strade sotto di noi: da qualche parte laggiù, un bambino corso ha mosso i suoi primi passi senza sapere che un giorno avrebbe cambiato il destino di interi continenti.

Resto in silenzio per un momento, lasciando che il pensiero prenda forma.

Napoleone non è solo il generale, l’imperatore, il conquistatore. Prima di tutto, è stato un ragazzo corso, cresciuto su questa stessa terra, tra queste stesse strade, con questo stesso mare all’orizzonte.

«Ci pensi?» dico a Veronika. «Da qui è partito un bambino. Uno solo. E ha cambiato la storia del mondo.»

Lei annuisce, lo sguardo perso tra i tetti della città. «Come Paoli» aggiunge dopo un attimo. «Uomini soli che hanno segnato il destino di un popolo.»

Penso ad Antoine, al suo racconto, al suo sguardo fiero mentre parlava della Corsica. Penso a Paoli, a Napoleone, a tutti quelli che hanno provato a lasciare un segno, nel bene o nel male.

Forse la storia è fatta di uomini che scelgono di non restare spettatori. Paoli è l’eroe della Corsica, il simbolo della sua lotta per la libertà. Napoleone è il conquistatore che ha riscritto il destino dell’Europa. Due corsi, due visioni opposte.

E oggi, cosa significa essere corsi? Essere figli di chi ha combattuto per l’indipendenza o di chi ha dominato il mondo? Forse, la risposta è nel modo in cui la Corsica continua a esistere: fedele a sé stessa, anche quando tutto intorno cambia.

Ci sono città che appartengono alla storia e città che hanno fatto la storia. Ajaccio è entrambe le cose.

Ajaccio visto dal Cessna (foto flight simulator 2024)

L’aeroporto Napoléon Bonaparte è poco più avanti, la pista appare oltre la città. Prima di iniziare la discesa, mi volto verso Skippy.

«Ti va di abbassare i flap?» chiedo con un sorriso. «Un piccolo aiuto per l’atterraggio, dopo tutto il supporto che ci hai dato oggi.»

Skippy si illumina e si precipita in avanti. Con movimenti rapidi, afferra la piccola leva e abbassa i flap con precisione. Poi si gira verso di me, alza il pollice con soddisfazione e torna fiera al suo posto, allacciando la cintura per l’atterraggio.

Allineo il velivolo con la pista. La discesa è spettacolare: il mare sembra lambire il bordo della pista, il verde e l’azzurro delle onde si infrangono sulla riva poco prima dell’asfalto. Le ruote toccano l’asfalto con un leggero sobbalzo.

Per un attimo, il riflesso dorato del sole sulla pista sembra confondersi con il bagliore del mare che brilla oltre la barriera. Un ultimo respiro profondo, poi il rullaggio lento ci riporta alla realtà.

Siamo ad Ajaccio.